Da qualche giorno, il programma di messaggistica Windows Live Messenger blocca l’invio di qualsiasi link che faccia riferimento a The Pirate Bay. Il sito dei pirati svedesi è ormai uno dei simboli della battaglia sul copyright che attraversa la rete. Oscurato in molti paesi (tra cui l’Italia) e oggetto di continui attacchi da parte delle autorità Usa, ora thepiratebay.se finisce in un’inedita e preoccupante “lista nera” di Microsoft. Spulciando la Rete, si scopre che l’unico laconico commento di Microsoft accenna a un sistema automatico che identifica e blocca l’invio di link a siti potenzialmente pericolosi. Nella versione italiana, il blocco viene infatti giustificato con un messaggio che recita “Il collegamento che hai cercato di inviare è stato bloccato in quanto segnalato come non sicuro”. Peccato che qualsiasi analisi con software antivirus non segnali alcun pericolo sul sito.

Esclusa quella della sicurezza, la colpa di The Pirate Bay può essere una sola: quella di essere considerato un “sito pirata”. Ma è sufficiente questo per giustificare il blocco? Di certo non esiste nessuna legge che obblighi Microsoft a filtrare le comunicazioni per impedire il collegamento a siti che possano “favorire” il download di materiale protetto da copyright. Tanto più che il blocco funziona solo con The Pirate Bay e non interessa nessun altro sito dedicato al download di musica o film. Di più: il filtro è praticamente inutile, visto che i paesi che oscurano Pirate Bay lo fanno a livello di server Dns, ovvero impedendo la traduzione del nome nell’indirizzo Ip che permette di collegarsi al sito. Insomma: se anche inviassi un link a The Pirate Bay tramite Windows Messenger, il mio interlocutore non potrebbe aprirlo.

Sul Web le ipotesi per spiegare la vicenda si sprecano. I più prudenti vagheggiano di un timore di Microsoft nel rimanere coinvolta in azioni legali per “favoreggiamento” nei confronti di Pirate Bay. I soliti maldicenti insinuano che si tratti di un gesto simbolico che punta a compiacere la lobby dell’industria cinematografica, magari nell’ottica del lancio di qualche nuovo servizio online. Dalle parti di Redmond, però, dovrebbero aver fatto male i conti sull’impatto che può avere una simile trovata. Non solo per la simpatia che il sito svedese suscita nell’opinione pubblica, ma per il metodo adottato. Una simile politica sgretola il patto di fiducia tra produttore e cliente. Fino a ieri potevamo pensare che ogni blocco e filtro venisse inserito nel nostro interesse, per proteggerci da virus o attacchi informatici. Da oggi, invece, sappiamo che un produttore può censurare i collegamenti Web secondo il suo capriccio, sbandierando per giunta una motivazione che, se non falsa, appare per lo meno vaga e pretestuosa.

Volendo sposare la linea complottista, si potrebbe addirittura interpretare l’episodio come una prova generale per far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Dopo le proteste degli attivisti per le libertà digitali, i vari progetti legislativi (Sopa e Pipa negli Usa, Acta in Europa) per mettere il bavaglio al Web con il pretesto della difesa del copyright sembrano essere definitivamente arenati. La via di accordi unilaterali con le aziende che producono software per una “censura volontaria” potrebbe rappresentare una via alternativa con cui le major cinematografiche otterrebbero quello che vogliono. Tutto senza troppa pubblicità e senza dover affrontare lungaggini e scocciature come i passaggi in parlamento. Cosa accadrebbe, per esempio, se la stessa politica di Windows Messenger venisse applicata ai programmi per la navigazione sul Web, ai software di posta elettronica o addirittura ai motori di ricerca? I siti invisi alle lobby dell’entertainment scomparirebbero. Lentamente, silenziosamente. Non ad opera di una legge liberticida, ma grazie a tanti accordi commerciali che gli farebbero il deserto intorno. D’altra parte non sarebbe la prima volta che il mercato si sostituisce alla politica. Non solo sul Web.

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