Ad ennesima conferma del “pensiero magico” austero che ha assalito i leader dell’Eurozona, citiamo l’elogio della Lettonia, inopinatamente uscito dal vertice artico ospitato nel fine settimana dai finlandesi di Olli Rehn. Durante il quale il giovane premier finlandese Jyrki Katainen ha coniato il fantasmagorico termine growsterity per magnificare le azioni di politica economica del suo paese, che ha tagliato la spesa pubblica offrendo al contempo un aumento dei crediti d’imposta per la ricerca. Se il mondo fossi così semplice, avremmo molte emicranie in meno.

Si diceva della Lettonia, che ha eroicamente mantenuto il peg (cambio agganciato) all’euro, praticando feroci tagli fiscali e deflazione salariale per recuperare competitività, anche per proteggere i creditori che avevano erogato prestiti in valute forti (euro, franchi svizzeri) ai propri residenti. Lo scorso anno il Pil lettone è rimbalzato del 5 per cento, dopo essersi schiantato del 24 per cento nel biennio precedente, però. E così siamo a replicare l'”effetto Argentina”, ma dal versante opposto: quello di un paese che non solo non intende ripudiare il proprio debito, ma sanguina copiosamente per mantenere il cambio fisso con la propria valuta di riferimento, in questo caso l’euro. Al vertice artico di questo weekend, quindi il premier lettone (anch’egli quarantenne come il padrone di casa finnico) è stato accolto come una star e di conseguenza si è sentito in diritto-dovere di dispensare le proprie ricette vincenti. Che però tali non sono.

Oltre alla problematicità di prendere a modello per un’area di mezzo miliardo di persone un piccolo paese di 2 milioni di anime (lo stesso passatempo pare accada negli Usa con il boom petrolifero del piccolo North Dakota, che qualche buontempone ha già elevato a modello nazionale), quello che si omette di segnalare è che la Lettonia, negli ultimi due anni, ha perso un decimo della propria popolazione attiva (centoventimila persone) per emigrazione, una formidabile valvola di sfogo per le economie depresse. Malgrado ciò, il tasso di disoccupazione lettone è oggi all’11,8 per cento, dal massimo del 17,3 per cento di marzo 2010, con un elevato numero di scoraggiati e di lavoratori part-time per impossibilità a trovare occupazione a tempo pieno. Il tutto tacendo, come detto, del buco di Pil reale che persiste tutt’oggi, malgrado il rimbalzo in larga misura “ottico” dello scorso anno.

Ma esiste anche uno studio del think tank statunitense Center for Economic and Policy Research che mostra che la “svolta” lettone si è manifestata grazie a dinamiche che sconfessano la vulgata della “deflazione interna” tanto cara agli euro-falchi. La feroce stretta fiscale ha causato un crollo del gettito, ed alla fine il rapporto deficit-Pil, a fine 2010 era ancora un vistoso 7,5 per cento. Quello che è cambiato realmente è stato uno shock inflazionistico che, in costanza di tassi d’interesse nominali, ha abbattuto i tassi reali e iniettato stimolo nell’economia. Di fatto, quindi, e pur in presenza del peg all’euro, la politica monetaria lettone è divenuta espansiva, riavviando la crescita.

Un successo la “svalutazione interna” della Lettonia, quindi? No, né successo né (soprattutto) svalutazione interna. Ma per la Ue e i suoi Stranamore la missione è compiuta. Ancora una volta, ragionare secondo una logica di “scatola nera” senza analizzare quello che può effettivamente essere successo, si rivela la scorciatoia migliore per non capire.

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