Erano i fantastici anni Sessanta. Mio padre guadagnava 80 mila lire al mese, respirando i veleni del “solforico”, alla Montecatini.
Prendeva qualche lira in più grazie al “malsano”: ti pagavano di più se lavoravi nei reparti più tossici.
Aveva sempre mal di stomaco: c’entra?
Ha avuto un cancro alla vescica: c’entra?
Tanti che lavoravano con lui si son fatti cancri a vescica, intestino, fegato: c’entra coi veleni che respiravano? toccavano?
Comunque. Mia madre guadagnava 150 lire l’ora, facendo le pulizie, che le 80mila lire del babbo mica bastavano.
Il boiler lo accendevamo solo la domenica così da avere l’acqua calda per fare il bagno. Gli altri giorni ci si lavava con l’acqua fredda. Se dovevo lavare la testa il mercoledì, mamma riscaldava un po’ d’acqua.
Che poi: quelli che stavano nella case di ringhiera mica le avevano tutte queste comodità.
Non succedeva quasi mai che ci fossero due stanze illuminate, bisognava risparmiare.
La televisione la guardavamo una volta a settimana, a volte due: al bar. Il telefono era una cosa da ricchi.
Però avevamo la radio. Gracchiava, ma almeno i due canali della Rai si sentivano bene (meglio di oggi).
Risparmiavamo su tutto, anche sulla carta igienica.
Ogni tanto aiutavo mia madre a tagliare dei giornale, ne venivano fuori dei ritagli un po’ più grandi di una cartolina. Mettevamo quei rettangoli di carta in una tasca di stoffa, confezionata dalla mamma, sul termosifone, accanto alla tazza. Così nell’attesa si leggevano pezzi di giornale: stravecchio e ritagliato. Tutto fa.
Era la paura che faceva risparmiare i miei vecchi, che allora non avevano quarant’anni: la paura di diventare ancora più poveri.
Appena potevano mettevano 1000 lire nel libretto al portatore, intestato a tutti e tre.
Facevamo una vita appena appena dignitosa: la domenica mi davano 150 lire per andare al cinema. Il giornalino di Tex (120 lire ogni quindici giorni) lo potevo prendere se non prendevo brutti voti (e ne prendevo, ne prendevo).
Nel 1962, grazie ai soldi racimolati dalla mamma, comperammo la Fiat 500.
Ma i miei vecchi, che allora avevano dai 35 ai 40 anni, vivevano nella paura, che respiravo, senza comprendere.
La paura che mio padre potesse perdere il posto di lavoro.
Era comunista, ma non lo diceva, non lo disse per anni.
Non faceva mai un giorno di malattia, eppure si piegava in due per il mal di stomaco, e stava per settimane a mangiare riso in bianco, curandosi con delle pastiglie che si chiamavano Roter (le scioglieva in acqua, avevano un bel colore, di nascosto un paio di volte le ho assaggiate: sapevano di terra e di marcio e, soprattutto, all’ulcera gli facevano il solletico).
I padroni potevano licenziare chi non garbava alle guardie, i ruffiani e le guardie potevano permettersi di deridere ferite profonde. C’erano, per esempio, i reparti maledetti, chiamati “dei cornuti”: lavorare a contatto con certe sostanze chimiche significava diventare impotenti. Mi racconta ancora oggi, il mio vecchio, la paura di allora.

Quando avevi finito di lavorare andavi a timbrare, poi prendevi la bicicletta e via a casa. Qualcuno però quando andava a timbrare non trovava la cartolina: voleva dire che ti avevano licenziato, che dovevi passare dall’ufficio. Una volta un ragazzo, un padre di famiglia, quando vide che la sua cartolina non c’era si gettò per terra, a piangere. Diceva: Come faccio ora a mantenere mia moglie e i miei figli? Una guardia, uno di quelli pagati per controllarci e fare la spia, disse: Mandi la tua donna a battere, no? E rise. Fortuna che quello non sentiva, perché batteva i pugni per terra da farsi male, poveraccio.

Erano i fantastici anni Sessanta, insomma. D’estate, le famiglie operaie potevano andare a prendere il sole a fare il bagno al fiume. C’erano i bagnini, le cabine per cambiarsi. C’erano i salvagenti fatti con le camera d’aria. Che il fiume, poco a poco, si riempisse di veleni poco importava, allora. L’Italia, sorridente, andava in Vespa verso il futuro.

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