Non ci sarà la musichetta della Champions League, ma quella del 20 maggio a Roma sarà una gara di grande suggestione. Di fronte, nella finale di coppa nazionale, ci saranno Juventus e Napoli. Entrambe lotteranno per un obiettivo che per loro vale molto più di quanto sembra: hanno la possibilità di sollevare verso il cielo un trofeo dopo anni lunghissimi passati ‘sotto terra’, nei campionati inferiori, lontane dalle luci del calcio non solo internazionale, ma anche dai vertici del pallone di casa nostra. Dell’andata e ritorno dall’inferno della Juve si sa tutto. Per i partenopei il discorso è più complesso. Nella tragedia sportiva napoletana non ci sono dirigenti indagati e arbitri chiusi negli spogliatoi: solo fallimenti e cattive gestioni.

Ma ora, dopo 15 anni di buio, il Napoli torna in finale di Coppa Italia. Se si escludono i tornei estivi precampionato, sarà la prima finalissima da quando il produttore cinematografico Aurelio De Laurentiis, nell’agosto 2004, rilevò il titolo della squadra azzurra dal cassetto della scrivania di un tribunale. A contendere la Coppa ci sarà la rivale per eccellenza: la Juventus. Finale inedita: in sessantaquattro edizioni di Coppa Italia (si chiamerebbe Tim Cup nel nuovo gergo pallonaro business class), mai i partenopei e i bianconeri si sono affrontati nella sfida decisiva. Diverso i discorsi per i turni ad eliminazione, dove torinesi e napoletani si sono affrontati senza risparmiarsi vicendevoli umiliazioni (nel ’78, ad esempio, la Juve mandò al San Paolo la Primavera, e gli azzurri senza pietà vinsero 5 a 0).

Ma i quindici anni di assenza dalle finali di Coppa Italia significano anche altro per il Napoli, unica squadra a vincere questo trofeo militando in B (stagione 1961/’62): fanno da spartiacque tra due epoche completamente diverse nella storia azzurra. Era il 1997, Maradona e Careca erano già un lontano ricordo, ma anche Ciro Ferrara, Gianfranco Zola e Fabio Cannavaro, ultimi talenti sacrificati sull’altare del bilancio, facevano già parte del passato. Il Napoli, in quella stagione, era già il giocattolo ‘scassato’ dell’ingegner Ferlaino, il presidente dei trionfi.

Conti in rosso, pochi fuoriclasse o forse nessuno. Eppure, con Gigi Simoni alla guida, la prima parte del campionato vide i partenopei arrivare fino al secondo posto. discorso simile in Coppa Italia, dove ai quarti – contro la Lazio (allora una corazzata, con Nesta, Nedved, Casiraghi e Signori) – gli azzurri riuscirono a vincere in nove uomini, grazie al goal di Caio, attaccante brasiliano prestato dall’Inter. Molto poco goleador per la verità: quello ai biancocelesti fu il suo unico sigillo in Italia.

Proprio l’Inter di Moratti fu eliminata dal Napoli in una semifinale tutta all’insegna dei sudamericani: a San Siro, Zamorano e Andrè Cruz segnarono per l’1 a 1 finale; nel ritorno al San Paolo, fu Beto, brasiliano di classe e saudade, a replicare al goal di Javier Zanetti, portando il Napoli ai rigori e al passaggio in finale. Una sorta di miracolo, come testimoniano le facce dello storico massaggiatore Carmando e di Simoni, l’urlo del San Paolo e l’emozione di Bruno Pizzul dopo l’ultimo rigore di Boghossian.

L’impresa del san Paolo consegnò al Napoli una finale abbordabile, contro il Vicenza: nelle speranze dei campani, sarebbe dovuta essere la gara che avrebbe dovuto regalare l’ultimo titolo dell’era Ferlaino. Sarebbe stato un trofeo inaspettato, perché conquistato da una squadra rappezzata alla bene e meglio con prestiti dalle grandi, talentini stranieri da rivendere per far cassa e svincolati a fine carriera. Un trofeo che avrebbe dovuto rallentare la lenta agonia, ma che invece, con il 3 a 0 subito a Vicenza (gol di Maini, Rossi e Iannuzzi) divenne l’inizio della fine: fuga dei big (Pecchia, Boghossian, Cruz e Beto) e ultimo posto con 14 miseri punti nel campionato successivo. Quella Coppa Italia persa fu il tramonto di un Napoli pensato in grande, che pochi anni prima aveva conteso la leadership nazionale agli squadroni del nord. Non solo. Fu anche l’inizio di una squadretta in grado solo di diventare il classico ascensore tra serie A e cadetteria, fino allo scatafascio finale della curatela fallimentare e della consegna dei libri contabili in tribunale.

Dalla sera amara di Vicneza sono passati quindici anni. Un arco di tempo equamente diviso: prima la decadenza totale, con gli anni bui di Corbelli e Naldi e la difficile ricostruzione; poi la rinascita graduale, partita dalla provincia più provincia che ci sia (Gela, Manfredonia, San Benedetto del Tronto) e culminata una settimana fa con la gara di ritorno degli ottavi di finale di Champions League contro il Chelsea, a Londra. Oggi, però, a conquistare la finale è una squadra completamente diversa da quella della rinascita. Per conferma, basta sentire ciò che ha detto Fabio Pecchia, centrocampista e anima di quel Napoli di quindici anni fa: “Ora ci sono i tre tenori (Cavani, Hamsik e Lavezzi), in quella squadra invece c’erano al massimo cantanti di piano bar”. Una sintesi difficile da contraddire.

Senza il patema d’animo degli stipendi arretrati, dei conti in rosso, della certezza che di lì a poche partite l’adorato campione finirà per vestire la maglia di una delle odiate rivali, il Napoli ha conquistato la prima finale della sua nuova storia con la consapevolezza, non più con la navigazione a vista del passato. Una finale che, a differenza di quindici anni fa, potrebbe e dovrebbe rappresentare per società e giocatori un punto di partenza: il passaggio da bella e incompiuta a candidata ufficiale alle vittorie, al pari delle grandi d’Italia.

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