Ho sbagliato mestiere. Non dovevo fare lo scrittore, ma l’ufficio stampa. Ma non l’ufficio stampa vero: l’ufficio stampa da osteria. Un ruolo molto particolare, che penso mi si addica. Il segreto è non far sentire l’interlocutore un ignorante, ma soltanto una persona fortunata, fortunatissima, perché, per una serie di circostanze, non ha ancora avuto accesso a qualcosa di bello che ora io, con la mia generosità sconfinata, sto per regalargli. “Non conosci Maurizio De Giovanni?” chiedo, sorridente. Non rivelo subito che sto parlando di una serie di romanzi, perché la serialità spaventa, qualche volta, l’idea di dover comprare cinque libri e chissà quanti altri, in futuro, no, quello lo tengo per dopo. Parto dall’ambientazione.

Napoli, nei primi anni trenta. E già l’interlocutore visualizza una specie di luogo mitico coloratissimo e misterioso, e uno sfondo storico che è, decisamente, il periodo fascista. Poi vado sul protagonista.

Il commissario Ricciardi ha un dono che è anche una maledizione: il Fatto, lo chiama. La capacità di vedere i morti di morte violenta come in un’ultima istantanea, di sentire le loro ultime parole o i loro ultimi pensieri. Un dono che può aiutarlo a risolvere i casi sui quali si trova a indagare, ma anche una maledizione di cui non può parlare con nessuno. Il commissario Ricciardi deve attraversare una città in cui a ogni angolo vede l’ultima immagine di un bambino travolto da un’auto o di un muratore caduto da un’impalcatura invocando la mamma…

Se sto parlando con una donna, aggiungo qualche utile e astuto dettaglio. Lo sguardo malinconico del commissario. Il fatto che non porta mai il cappello. Il ciuffo che gli cade sulla fronte. Il fatto che sarebbe ricchissimo di famiglia ma non si cura dei suoi possedimenti. Già al dettaglio dello sguardo malinconico e dei capelli sulla fronte –che idealmente vorrebbe scostare con un tocco delicato – la potenziale lettrice è quasi convinta a immergersi in questo universo.

E qui calo il carico da undici: Ricciardi vive con una vecchissima governante che vorrebbe tanto vederlo sposato, ma lui si divide tra due donne che si contendono il suo amore, la dolce fanciulla che per i primi due romanzi il commissario guardava ricamare alla finestra di fronte, e la fatalona molto più aggressiva, ultradecisa a conquistare il suo Ricciardi con tutti i mezzi. E poi aggiungo particolari, qua e là. Il fatto, ad esempio, che i comprimari si evolvano libro dopo libro – e qui ho gettato la maschera sulla serialità, ma l’interlocutore non se ne accorge subito -, che abbiano delle loro vite, che il brigadiere Maione abbia sì un ruolo quasi comico, qua e là, impegnato a non ingrassare troppo per non disgustare la moglie e a sfuggire alle avances del femminiello Bambinella, ma che viva un dramma terribile – l’assassinio del figlio – e, dei dilemmi morali sconvolgenti – vendicarsi dell’assassino, una volta scopertane l’identità? Il fatto che ci si affezioni alla governante e alle due innamorate di Ricciardi e al medico legale antifascista dai superiori fascistissimi, insomma, a tutto un cast di comprimari che cresce e si muove pagina dopo pagina, e poi – aggiungo agitando molto le mani – ci sono tanti dettagli qua e là, ad esempio la prima rappresentazione di Natale in casa Cupiello

E qui l’interlocutore, che è già stregato dal mio eloquio ma non è completamente rimbecillito, torna in sé e chiede “Ma allora sono cinque romanzi?”

Sì, dico io, Per adesso, sono cinque, è una serie in corso, ma tanto guarda, non c’è speranza, quando ci entri dentro non vedi l’ora che esca il romanzo nuovo, i primi quattro sono usciti per Fandango, e si intitolano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, e ognuno di questi romanzi si svolge in una stagione diversa, l’inverno del commissario Ricciardi, la primavera del commissario Ricciardi… E il quinto?, chiede la vittima, che ha contato le stagioni e si sta chiedendo cosa mai arriverà dopo l’autunno. Il quinto è uscito per Einaudi, si chiama Per mano mia, si svolge a Natale e inizia un ciclo legato alle festività.

Eh, accidenti, è uno sporco lavoro, l’ufficio stampa da osteria, ma mi piace.

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