Un silenzio quasi irreale che ha il sapore del gelo è sceso sulla scena insanguinata della strage di Kandahar dell’11 marzo scorso, quando un soldato americano, il sergente 38enne e padre di due figli Robert Bales, ha ucciso almeno 16 civili inermi nel cuore della notte. Un gelo politico denso nuovamente di nubi dopo che la commissione di indagine inviata dal parlamento afgano ha fatto sapere di non credere alla versione di “one man only”, ma di ritenere che di soldati americani, quella domenica mattina all’alba, ve ne fossero almeno quindici, forse venti. Che, oltre a sparare, avrebbero anche usato violenza su due donne del villaggio di Panjiwai. Un video diffuso dalla Bbc nel fine settimana ha mostrato un incontro a palazzo tra Karzai e gli anziani del distretto: i vecchi raccontano e il presidente prende appunti. Poi, apostrofato da una giornalista dell’emittente britannica, va giù duro: «Com’è possibile che un uomo solo uccida della gente in quattro stanze diverse e trascini poi i cadaveri in un’altra per dargli fuoco»? Tutto ciò, dice il presidente, è intollerabile. E per dar più peso alle ricadute dell’ultima incredibile vicenda, dopo la storia dei Corani bruciati e lo shock prodotto da un video in cui marine urinano sul corpo di guerriglieri morti, il presidente trasferisce sul piano politico l’orrore per il fatto umano: chiede a Washington che il ritiro si compia non già entro il 2014 ma entro il 2013. Via i soldati. Un anno prima del previsto.

Gli americani non rispondono e anche la stampa americana è silente. I talebani invece ne approfittano per cavalcare la tigre: «Non crediamo nel coinvolgimento di un solo americano – dice un comandante intervistato dalla Cnn – gli stranieri e il regime fantoccio non dicono la verità». Ma questa volta i turbanti arrivano tardi. La commissione avallata da Karzai ha già detto queste cose due giorni prima e, da subito, Kabul ha chiesto che Bales sia giudicato in Afghanistan, richiesta che ora fanno propria anche i turbanti neri.

A vederla da lontano, la vicenda del sergente Bales, che rischia la pena capitale e che solo oggi incontrerà per la prima volta il suo avvocato nel carcere militare di Fort Leavenworth in Kansas, sembra aver messo in rotta di collisione definiva Kabul con Washington. Ma è proprio così? Karzai è stato duro ma non è nuovo a queste cose anche se la strage di Kandahr ora gli offre qualche atout in più. Con la possibilità di capitalizzare su più fronti, menando un colpo al cerchio e uno alla botte.

Il contesto è quello del cosiddetto Patto strategico di lungo termine tra Afghanistan e Usa che gli sherpa afgani e americani stanno mettendo a punto. Sin dal primo momento, Kabul ha chiarito che la strage di Kandahar non avrebbe fatto deragliare il negoziato. Ma proprio ieri, il portavoce di Karzai, Aimal Faizi, ha detto che il patto non include la permanenza della basi americane in Afghanistan: un capitolo a parte che richiede «chiarimenti su certe ambiguità». Un giorno si fa, l’altro si mette in dubbio. Il Patto non è una cosa secondaria: Obama lo vuole firmato entro maggio quando a Chicago, nella sua città, si riunirà il vertice Nato che dovrà sancire l’uscita di scena dei militari occidentali dal Paese asiatico entro il 2014. Ma c’è di più. Secondo indiscrezioni della stampa americana, Obama starebbe pensando a ritirare entro metà 2013 circa la metà del contingente americano, ossia ventimila soldati in più di quanto previsto. La strategia è chiara: uscire in fretta dalla guerra costosa e impopolare ma senza perdere la faccia, ossia le basi americane su suolo afgano.

Karzai vuole sfruttare quanto Kandahar gli sta portando su un piatto dorato. Non ha intenzione di tagliare con Washington ma vuole alzare la posta. Il presidente americano ha fretta? Bene, prima ancora che la notizia del ritiro anticipato sia ufficiale, Karzai la fa sua chiedendo a Obama di anticipare i tempi. Washington ha bisogno delle basi? Benissimo, si potrà anche fare ma a certe condizioni. Il muso duro, infine, fa gioco anche sul fronte interno: non piacerà forse agli americani ma piace a un’opinione pubblica stanca della presenza occidentale e che sente il bisogno di essere rassicurata. Il gioco duro serve anche a tenere a bada un parlamento riottoso con cui Karzai, che non ha più una maggioranza solida, deve allearsi. Infine il presidente vuole entrare nel vivo di una trattativa coi talebani, che pure continuano a sbattergli la porta in faccia. Meno si dimostra “regime fantoccio” più diventa credibile.

di Emanuele Giordana

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