A Michele Serra Twitter fa schifo. E il “Popolo della Rete” (che non esiste) c’è rimasto male. L’articolo di oggi dell’ex (ex ex) direttore di Cuore, nella sua Amaca di Repubblica, è emblematico. Come e più di Massimo Gramellini, Serra ha avvertito l’irrinunciabile desiderio di far sapere al mondo che a lui i cinguettii non piacciono. L’intellighentia, si sa, è molto più impegnata e rarefatta del vile volgo: mentre la plebe osa sorridere nei social network, Serra si eleva e ci spiega quello che pensiamo. Osservando con sgomento, nonché palpabile disgusto, l’orrendo affaccendarsi dei Twitter-addicted.

L’articolo di Serra contiene osservazioni condivisibili: “Sommarietà dei giudizi (si sa, lo spazio è quel che è)”, “violenza verbale”, “cicaleccio impotente”. Peccato che in tanti, molto prima e forse meglio di lui, abbiano scritto le stesse cose. Anche questo giornale, per dire. Serra non ha scritto nulla di nuovo. La sua contrarietà a Twitter, e in generale alla Rete, non è scelta ma incapacità. Non è che non gli interessa: non sa usare il Web. Gli mancano voglia, sintesi, leggerezza. Serra si è opposto a Twitter per saccenza e impotenza: come la volpe con l’uva.

Fa poi sorridere come Serra, una firma che sapeva scorticare il potere con editoriali mirabilmente intrisi di “sommarietà dei giudizi”, lamenti un’eccessiva cattiveria di Twitter.
Con il tono solenne di chi racconta agli ignoranti lo sbarco in Normandia, Serra racconta di avere seguito un programma tv con un amico connesso su Twitter. Probabilmente erano mirabilmente assisi in un attico, con l’opera omnia di Kierkegaard appesa alle pareti. Lì l’intellettuale Serra non ha potuto non trasecolare di fronte alla “assoluta drasticità” di chi scriveva: “Il conduttore (Panariello? Il suo Fabio Fazio?) era per alcuni un genio, per altri un coglione totale, e tra i due “insiemi”, quello pro e quello contro, non esisteva un territorio intermedio”. Evidentemente l’infatuazione montiano-piddina, in Serra, è tale per cui anche nel divertissement ameno (e nell’angusto spazio di 140 caratteri) si debba inseguire il “territorio intermedio”: cioè il politicamente corretto. La sobrietà bipartisan. Bella idea: quando uno fa una battuta sulla Carfagna, di rimando un altro ne fa una sulla Costamagna. La par condicio al tempo di Michele.

Tradendo poi una certa confusione mentale, Serra ha chiuso il pezzo – dopo l’ennesima lenzuolata pedagogica (“La speranza è quel medium sia, specie per i ragazzi, solo un passatempo ludico, come era per le generazioni precedenti il telefono senza fili“) – con un perentorio “Twitter mi fa schifo”. Provocazione riuscita, ma non esattamente satura di “territori intermedi”.

Michele Serra non cinguetterà su Twitter. Non ha tempo e motivo per farlo: mentre il comune mortale scherza, lui è impegnato a metabolizzare la Recherche di Proust. Secondo Serra la vita è dolore e sofferenza, da qui il divieto di scherzare (se non in luoghi autorizzati e dichiaratamente preposti all’ironia colta). Il rifugiarsi ostinato nel passatismo – “Non ho il cellulare”, “Neanche guardo le mail”; “Feisbuk che?” – è un simpatico vezzo della sinistra più à la page, che da una parte tromboneggia e dall’altra è troppo presa a trascendere per mantenere il contatto con i suoi lettori. C’è solo una cosa che Serra non faticherebbe a vedere, se solo fosse meno obnubilato da quella che potremmo rispettosamente chiamare “sicumera vintage”: Twitter, come tutti i mezzi, non è sbagliato in sé. Se usato male, è mera autoreferenzialità (che Serra conosce benissimo, come tutti noi). Se usato benino, è puro divertimento (che Serra conosceva benissimo). Se usato bene, è palestra di scrittura e umorismo (di cui Serra era, e a volte è, maestro).

Più che far schifo, Twitter logora chi non ce l’ha. O non sa usarlo.

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