Le sirene euroscettiche d’oltre Manica che chiedono un referendum per uscire dall’Unione europea hanno ricominciato suonare. E questa volta non sarà facile per il premier David Cameron metterle a tacere. Vuoi per la crisi, la disoccupazione, o la sensazione di aver poca voce in capitolo, ma gli inglesi sono sempre meno “in the heart of Europe”, come recitava un famoso slogan di Tony Blair.

Dopo la firma ufficiale del nuovo fiscal compact da parte dei 25 paesi Ue aderenti (meno Gran Bretagna e Repubblica ceca) il primo marzo a Bruxelles, le richieste di indire una consultazione popolare per decidere il futuro del Regno Unito all’interno dell’Ue sono riemerse dopo qualche mese di tregua.

Clamorose le dimissioni di Mark Pritchard, tory di peso del partito conservatore di Cameron, che con una lettera al premier ha espresso “diverse preoccupazioni in merito a sempre più numerose politiche del governo, tra cui immigrazione, Europa e una mancanza di chiarezza sulle reali aspirazioni nazionali”. Parole che assomigliano alla secca condanna del veterano euroscettico Bill Cash, secondo il quale “adesso ci sono due Europee, entrambe costruite sulla sabbia”. Ed è proprio questa la critica maggiore rivolta a Cameron, ovvero non aver difeso a sufficienza gli interessi britannici nei confronti dell’Ue, pronta, secondo i suoi detrattori d’oltre Manica, ad andare avanti anche senza Londra.

Il 24 ottobre scorso, Cameron era riuscito a scongiurare una consultazione popolare chiesta a gran voce da un’opinione pubblica inferocita e sponsorizzata da deputati di entrambi gli schieramenti, compresi una quarantina di tories. In quell’occasione il Premier era riuscito a soffocare la ribellione anti-Europa direttamente alla Camera dei Lords, sostenendo a voce alta che “non è nell’interesse britannico uscire dall’Unione e dal suo mercato unico”.

“Quando la casa del nostro vicino sta andando a fuoco, il primo impulso dovrebbe essere quello di aiutarlo a spegnere le fiamme anche per non permettere che queste arrivino fino alla nostra casa”, aveva spiegato Cameron. “Non è questo il momento di andarsene via. E questo non solo per il loro bene (altri Paesi, ndr) ma soprattutto per il nostro”. Un approccio pragmatico che lì per lì aveva convinto.

Ma dopo la firma del fiscal compact qualcosa potrebbe essere cambiato. A nulla sono valse le affermazioni pubbliche del governo di valutare eventuali “azioni legali” nei confronti di un trattato sul quale aleggiano molti dubbi procedurali (secondo quando denunciato anche dal Parlamento europeo). Non deve essere piaciuta l’opposizione di Angela Merkel e del presidente del Consiglio europeo  Herman Van Rompuy all’osservazione di Cameron sulla necessità di aumentare il firewall attorno ai Paesi in difficoltà, opposizione che ribadiva quanto si tratti di una materia di stretta competenza di Eurolandia. Insomma, questa volta per Cameron sarà molto difficile spegnere “l’incendio”.

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