Ci sono alcune sorprese e alcune anomalie non facilmente spiegabili in questo ultimo film di Roberto Faenza, Un giorno questo dolore ti sarà utile. Faenza, con il suo lungo pedigree di film tutti italiani (meno uno, che però era avvolto nella cultura, in quella vasta e misteriosa terra di nessuno che è la psicanalisi) questa volta fa un film completamente americano. E il film lo è, senza neppure un accento (non dico di lingua, dico di narrazione) sbagliato, nel senso che il film è solo e tutto americano. Eppure non è una di quelle prove riuscite con qualche vezzo, però, di richiamo a un’altra cultura. La prova, superata, io credo, con evidente bravura, è un’altra. E’ la trovata di spostare i punti di appoggio, i pesi, la natura del dramma, le ragioni che fanno muovere la storia.

È la storia di un ragazzo troppo giovane per essere uomo e troppo carico di sogni e tensioni, incertezza e attesa, per restare ragazzo. Cancellate Peter Pan dalla storia. Cancellate tutta la felicità stordita di essere troppo giovane. Ma cancellate anche l’ansia, altrettanto stordita, di dover aprire per forza una delle porte “per entrare nella vita”, come tutti continuano a dirgli. “Tutti” sono la famiglia, un po’ di finto lavoro (nell’impresa di casa, che è una galleria d’arte), un amico. La trovata è che il nostro giovane eroe (scelto dal regista con mano felice per dire “giovane” senza dire “magico”, per dire ansietà senza tormento, per rappresentare la piacevole imprecisione della persona che non ha ancora finito di definirsi, meglio, di trovare se stesso, nel labirinto di tutte le altre persone) la trovata è che non c’è nessuna raffigurazione della debolezza, come tratto dolente e romantico dell’aspirante adulto e non c’è alcuna nostalgia della forza finita e finale dell’uomo compiuto, che è lì e gli si vede accanto (l’unico amico) però non come invidia o attesa o tensione o senso di mancanza e di inadeguatezza, ma come semplice ammirazione, forse unico tratto infantile di un bel ritratto di adolescente. Quel che va riconosciuto al regista italiano che fa un film americano in America, una storia americana con attori americani, e riesce a farlo senza sfiorare dialetti o accenti né italiani né americani, è di avere trovato il delicato punto su cui appoggiare narrazione, personaggi e sviluppo di quei personaggi. Il punto è la semplice universalità della storia, un ragazzino che fa la sua fatica a diventare uomo, e il problema non è che non fa differenza dove nasci e cresci e vivi e soffri e provi e speri.

Fa differenza. Ma non al punto che gioia e frustrazione, e prova ed errore, caduta rovinosa e conforto, non siano altro che il ritratto di una persona da giovane in quella maledetta e meravigliosa stagione tra estrema giovinezza e fastidiosa, inevitabile maturità. Poiché questo è in tutta evidenza l’elogio di un film ben fatto, potrebbe essere utile far seguire un elenco di pericoli incombenti ed evitati. Per esempio caratterizzare i genitori, la sorella, come “americani”. Ovvero, secondo la vulgata tradizionale, estrosi, esagerati, simpatici e ingombranti. Lo sono appena un po’, come in Friuli o a Marsala. Oppure dare al giovanissimo nuovo protagonista di una vita che ancora non prende forma, una nonna stravagante e troppo spiritosa, invece di una donna che presta attenzione a fiori, libri e persone. Tutto ciò avviene sul fondale di una America quieta che si può amare ma non fa notizia, non nel senso esagitato che si è inclini ad attribuire all’America. Mentre sei nel film, sei in luogo amichevole dove le stranezze sono battute simpatiche che fanno da sostegno alla storia affinché, quando sfiora la tristezza, non diventi cupa e non smetta la sua mezza promessa di qualcosa di meglio che prima o poi arriva. O per il protagonista o per noi.

Il Fatto Quotidiano, 3 Marzo 2012

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