Pochi ne sentivano la mancanza e pochissimi se ne sono accorti, ma da due anni è resuscitata una testata gloriosa, “Alfabeta”, fondata nel 1979 da Nanni Balestrini e Umberto Eco ed estinta nel 1988. Anche in questa seconda reincarnazione, la rivista ambisce a diventare il fulcro delle avanguardie pensanti. Ma prendiamo l’ultimo numero, il sedicesimo (febbraio 2012). Tra i pezzi forti, oltre a un articolo di Franco Berardi detto Bifo (giovane agitatore bolognese alla ribalta nel 1977) c’è una lunga ciàcola con quel pivellino di Toni Negri, 78 anni, ex capo dell’Autonomia operaia e ora molto corteggiato dai circoli radical chic francesi e americani.

Un’intervista genuflessa, di fatto un monologo punteggiato di domande ficcanti del tipo: «Uno dei tratti che colpisce nel tuo percorso è la convinzione nella possibilità di un’alternativa rivoluzionaria… Come hai conservato questa convinzione?». Il professore padovano, compiaciuto, affabula intorno alle sue prigioni, all’incontro con Spinoza (che quest’ultimo non riuscì a evitare), alla violenza in politica: «È ovvio – ragiona – che non c’è alcun tipo di azione politica di rinnovamento,  non c’è neppure riformismo che possa modificare la realtà senza passare attraverso certi gradi di uso della violenza… Che dalle “armi della critica” si debba passare alla “critica delle armi” a me è sempre sembrato ovvio». E così, di ovvietà in ovvietà, Toni offre una scintillante sponda filosofica a quei fior di galantuomini che lanciano estintori sui poliziotti e danno del boia a Gian Carlo Caselli.

Uno degli sport più in voga in Val di Susa pare sia il tiro al barattolo con foto del procuratore. Ovvio, dirà Negri: la spersonalizzazione del nemico, la sua riduzione a simbolo, è da sempre una specialità dei terroristi.  Ricordarlo dovrebbe essere compito degli intellettuali, che invece preferiscono attardarsi coi tromboni di una rivoluzione fallita. O ridere delle battutacce di Beppe Grillo.

Come ha notato Caselli, «è nell’ambiguità che si infilano i professionisti della violenza».  In un bel libro appena uscito da Laterza (“Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960-1988) Angelo Ventrone spiega che davanti ai primi sequestri delle Brigate rosse i cervelli di Potere Operaio avanzavano lambiccate riserve: la «giustizia proletaria» contro «esponenti del revisionismo operaio», sostenevano, non ha prospettiva perché resta «interna al sistema». Insomma rapire e ammazzare un essere umano non è sbagliato in sé, ma solo in quanto sganciato dalle lotte di massa. Capito che fighi, gli amici di Negri? Non stupisce che alcuni di questi supergeni abbiano fatto carriera e vengano interpellati come oracoli. Ma non è questo il punto. Ci piacerebbe piuttosto sapere cosa ne pensano Umberto Eco, Maurizio Ferraris e gli altri membri del “comitato storico” di Alfabeta. Se sono contenti di ospitare i maestri del pensiero ribollito. E come la prenderebbero se qualcuno giocasse a tirassegno sulla loro faccia. O magari su quella di Grillo, belìn!

da Saturno del 24 febbraio 2012

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