Il lavoro è un pezzo smontabile dell’impresa, o è il senso dell’impresa, dunque il senso e la visione di un periodo della Storia? Nel fitto conversare sul lavoro che è ormai attività quotidiana e che impegna governo, giornali, sindacati, parlamenti, esperti e persino persone che lavorano, lavoravano o vorrebbero lavorare, ci sono alcuni equivoci che vale la pena di chiarire.

Per esempio, non è utile distinguere il lavoro dei giovani da qualunque altro lavoro. Il lavoro, come attività tecnica, come settore organizzativo di una impresa e come questione giuridica e contrattuale, è sempre lo stesso, senza riguardo all’età e anzianità professionale di chi lavora.

Dunque non c’è un “lavoro dei giovani”. Il lavoro c’è o non c’è senza distinzione anagrafica. Il fatto che il numero di giovani senza lavoro sia più grande del numero di persone di altra età è un fatto vero, determinato da scarti bruschi e improvvisi sia di situazione economica, sia di governo aziendale. Ma ci sono due trucchi. Nessuno ti dice quanti “anziani” stanno intanto uscendo da tante altre porte che si sono aperte in sistemi aziendali ormai inclini a ogni forma di dismissione, non importa con quali travestimenti. Ma il vero obiettivo è fare in modo che i più giovani scarichino la tensione e la frustrazione sui più anziani, che vengono accusati di difendere solo se stessi (mentre sono, probabilmente, l’ultima protezione, anche familiare, dei più giovani).

Ho sentito il conduttore di un telegiornale domandarsi, con gravità e preoccupazione “chi parlerà a nome di questi giovani al tavolo del lavoro governo-sindacati”. Il fatto – ovvio ma deliberatamente cancellato – è che il lavoro non è un problema a parte, una sorta di questione tecnico-economica che si affronta e si risolve come la logistica rispetto alla viabilità o la scelta del mezzo rispetto a un viaggio.

Il lavoro è un’idea di civiltà, un modo di organizzare la vita in una data epoca. È un insieme di azione collettiva che ha un contenitore organizzativo, un contenitore culturale, un contenitore politico, un contenitore finanziario. Sto suggerendo l’immagine di una matrioska in cui sta diventando difficile stabilire se il contenitore più grande sia quello culturale (lo spirito del tempo), quello politico (le decisioni e direttive di un governo), il prevalere di persuasioni ideologiche (la destra svaluta il lavoro, la sinistra lo esalta), o le direttive finanziarie, nel senso di una forte capacità di enti sovrani non nazionali di imporre percorsi, decisioni, priorità, come sembra stia avvenendo in Grecia. Un dibattito sulla riforma del lavoro in Grecia sarebbe inutile non perché arriva tardi rispetto al disordine che sta travolgendo il Paese, ma perché al potere sovrano che sta dettando comportamenti alla Grecia non importa nulla del lavoro.

Ma questo vale per qualunque situazione, anche non in stato di emergenza. Molto prima della questione dei diritti, e dunque della equità, c’è una questione di fatti: chi decide, chi comanda, chi apre e chi chiude la porta di tutte le attività, chi ha in mano le chiavi? Non è detto che sia il governo o che sia la politica. Basti pensare agli sbarramenti che Obama ha incontrato sul suo percorso di presidente “socialista”. Forte come è forte un presidente degli Stati Uniti, Obama ha accettato abbastanza presto di venire a patti e di ridurre i suoi progetti su assistenza medica e lavoro perché la sua politica non avrebbe avuto la forza di tener testa a una pressione generata dall’esterno della politica.

Nella matrioska americana, non è Obama il più grande che contiene e condiziona tutti gli altri. E questa è una storia nuova che dovrà essere approfondita e compresa. Discutere adesso di nuovo lavoro americano con Obama non avrebbe alcun senso. Il valoroso presidente degli Stati Uniti sta combattendo per mantenere in gioco pezzi di organizzazione sociale che rischiano di scomparire.

Il modello di impresa e il modello di management non possono essere separati dalle lunghe e dettagliate discussioni sul lavoro. Ma neppure da una immagine o visione del dove stiamo andando tutti, quale vita, quale società, quale Storia. Il cambiamento di management (questione che, stranamente, non si analizza e non si discute mai, mentre si compiono ancora e ancora nuove autopsie su ciò che resta del lavoro operaio) non è un cambiamento del capitalismo che a sua volta porta cambiamento nei vari settori del mercato, tra cui la politica del lavoro e la politica sindacale.

Prendete le public companies americane, celebrate perché non c’è un padrone ma un azionariato diffuso e tanti manager competenti e in competizione per il meglio. A un certo punto, in mancanza di una visione umana o morale o politica o anche solo imprenditoriale, cominciano a crearsi nuovi tipi di competizioni tra manager: vince chi licenzia un numero più alto di dipendenti perché tali licenziamenti sono dimostrazioni di capacità di leadership, di energia dirigenziale. Il fatto è che licenziare guadagna punti in Borsa e bonus rilevanti per i manager che hanno portato quel tipo di arricchimento al Gruppo.

Tutto ciò ha molto a che fare con alcune persone dell’impresa, ma niente con il lavoro (di cui pure si continuerà a discutere come se tutto fosse stato generato dal comportamento dei dipendenti). Decidere che “adesso ci sediamo a un tavolo e discutiamo su come cambia il lavoro e sui nuovi modelli che vogliamo” toglie senso e valore alla vita e all’opera di Adriano Olivetti. Infatti Olivetti, padrone e manager, aveva notato subito che, se non si cambia l’impresa (e, intorno all’impresa, il mondo culturale e politico nel quale l’impresa esiste) non si cambia il lavoro. Olivetti ha visto subito che il lavoro è l’impresa nel suo insieme, ma è anche la società nel suo insieme, è ciò che forma la comunità, e che fa camminare la Storia.

Il lavoro non è un reggimento di sussistenza agganciato in coda, dopo gli azionisti e il management, al seguito di qualcosa già perfetto in sé (il danaro). Ecco dunque una lezione che non dovrebbe essere perduta. Non dite: cambiamo il lavoro. Non si può cambiare il lavoro senza cambiare tutto. O il contrario. Niente resta uguale se si tocca il lavoro. Salta, o si forma, una visione della vita e della ragione umana e politica di stare insieme.

Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2012

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