Si è svolta lo scorso giovedì 2 febbraio alla Comunità di San Paolo di Roma un’interessante assemblea sulla situazione in Siria e le rivoluzioni arabe. Il momento culminante di tale assemblea è stato costituito dall’intervento di un rappresentante dell’opposizione siriana, Ossamah al Taweel, il quale, denunciando l’intollerabile situazione rappresentata dalla repressione in atto nel suo Paese, ha però respinto ogni ipotesi di intervento armato dall’esterno.

Il regime di Bashar el Assad, la cui famiglia controlla da molto tempo la Siria, è certamente un regime di natura dispotica, ma la situazione è più complessa di quanto non appaia a un osservatore superficiale. Bisogna puntare su forme di cambiamento rivoluzionario democratico e pacifico come avvenuto in Egitto e Tunisia e non su di una soluzione militare alla libica che avrebbe come esito la destabilizzazione e frammentazione del Paese.

Il diritto internazionale deve costituire uno strumento indispensabile per orientarsi in una situazione come questa. Voglio qui citare la posizione prevalente in materia di autodeterminazione dei popoli, espressa ad esempio dal professore australiano Robert McCorquodale, il quale nel suo libro “Self-determination in international law” pubblicato nel 2000, afferma fra l’altro il legame esistente fra autodeterminazione cosiddetta interna e principio di non intervento, che significa che tutti gli Stati sono tenuti ad astenersi dall’esercitare influenze volte ad orientare le scelte di un popolo.

Inutile scandalizzarsi dell’atteggiamento “non-collaborativo” assunto da Russia e Cina al Consiglio di sicurezza, non tenendo conto del fatto che, con il precedente libico, l’autorizzazione all’intervento armato a protezione dei civili è stata di fatto abusata dalle potenze occidentali per intervenire nella guerra civile a fianco degli insorti, affossando a suon di bombardamenti il regime di Gheddafi. La situazione che ne è derivata è sotto gli occhi di tutti: gravi e massicce violazioni dei diritti umani, e specialmente dei diritti degli immigrati africani e delle donne, violenza settaria e intertribale.

Dietro questa ansia di interventismo militare ci sono precisi interessi strategici: di taluni Paesi arabi, come l’Arabia Saudita e il Qatar, che dopo aver a loro volta represso sanguinosamente le ribellioni al loro interno, vogliono in qualche modo cavalcare l’onda delle rivoluzioni arabe favorendo la restaurazione in Egitto e Tunisia e fomentando la guerra civile in Siria, così come hanno fatto in Libia; le forze del fondamentalismo islamico, a cominciare dalla stessa Al Qaeda, che vedono in situazioni di questo genere un’occasione per riciclarsi dopo le numerose sconfitte subite; e infine le potenze occidentali che vogliono a loro volta approfittare della crisi degli assetti consolidati per trovare nuovi spazi di penetrazione economica e politica. Il tutto, senza dimenticare lo sfondo della prossima guerra fra Iran e Israele in corso di preparazione, che, secondo l’ex capo del Mossad, Dagan, costituirebbe un grave errore (vedi l’articolo di Ronen Bergmna su Yedioth Ahronoth ripreso da Internazionale del 10 febbraio 2012).

Esiste, come ho già avuto modo di affermare su questo blog, una relazione di mutua esclusione fra guerra e rivoluzione. Occorre dunque ribadire, con i firmatari dell’Appello “Libertà e giustizia per i popoli arabila nostra contrarietà a qualsiasi intervento militare in Siria e al contempo il sostegno al popolo siriano e la richiesta di fine immediata della repressione.

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