Il 20 ottobre dell’anno scorso, Gheddafi veniva catturato in un tubo di scarico vicino casa sua e ucciso brutalmente. A noi è giunto il filmato della sua cattura fino al momento in cui è stato giustiziato con un colpo di pistola, mentre veniva messo in mostra sul retro di una Jeep. Per molti il rais libico è morto come un topo, proprio come lui stesso si augurava che morissero tutti i rivoltosi libici.

Alla sua morta sono subito cominciate le polemiche tra chi sosteneva che non doveva morire ma essere giudicato in un tribunale e tra coloro che invece volevano morisse – portandosi chissà quanti segreti nella tomba– , come poi è stato.

Ahmed Warfali, cittadino libico, ha messo all’asta, per la “modica” cifra di 2 millioni di dollari, la maglietta insanguinata e la fede nuziale che Gheddafi indossava nel momento della sua cattura. Come Warfali sia riuscito a impossessarsi di questi oggetti nessuno lo sa. L’opinione pubblica libica si è già scatenata in commenti. C’è chi rivendica come soldi dello stato libico gli eventuali proventi dell’asta. Altri elogiano questo privato cittadino per l’audacia.

Viviamo in un’epoca in cui tutto (ma veramente tutto) può entrare a far parte di un grande show mediatico. Possiamo guardare da casa i filmati dell’uccisione di persone – come nel caso di Gheddafi – esecuzioni di massa e condanne a morte. Oggi, però, sembra che il genere umano abbia salito un nuovo gradino della sua grandiosa evoluzione: trasformare il post-morte in un’asta. Non sarà un po’ troppo?

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