L’università costituisce per ogni società uno snodo di importanza strategica. Non solo come luogo di formazione della futura classe dirigente, ma come possibilità di incontro, approfondimento e ricerca che produca idee valide per la necessaria innovazione del sistema politico, economico e sociale.

L’università italiana ha grandi tradizioni ma attualmente sta messa piuttosto male. L’appello L’Università che vogliamo, promosso da Angelo D’Orsi e Piero Bevilacqua, che ho sottoscritto insieme a numerosi altri , mette il dito nella piaga e suggerisce alcuni rimedi. Il principale pericolo, adeguatamente denunciato da questo appello, è quello della finalizzazione del sapere a un immediato profitto economico: “A tutti gli insegnamenti viene richiesto di fornire un sapere utile, trasformabile in valore di mercato, altrimenti sono ritenuti economicamente non sostenibili”. Non siamo più per fortuna, ai livelli patetici di Berlusconi e della Gelmini, ma questa linea di “pensiero” è sempre viva e minacciosa.  L’appello prosegue affermando il chiaro fallimento del modello “europeo”, in realtà frutto a sua volta di un tardivo scimmiottamento di quello statunitense e della sua natura profondamente classista. In termini ancora più generali, l’appello afferma inoltre che “il sapere tecnoscientifico, da sé, interamente finalizzato alla crescita economica e senza un progetto equo e solidale di società, privo della luce della cultura critica, è destinato a fallire”.

In quest’ottica l’appello contiene alcuni obiettivi concreti che sono ampiamente condivisibili: “Abolire il fallimentare sistema del 3+2 dell’organizzazione degli studi e ripristinare i precedenti Corsi di Laurea;  abolire i crediti (i famigerati Cfu) come criteri di valutazione degli esami; ripensare i criteri di valutazione che riguardano i saperi umanistici; fare del Senato Accademico, democraticamente eletto, l’organo di autogoverno degli atenei; ripristinare la figura del ricercatore a tempo indeterminato ; bandire concorsi per la docenza in tutte le Facoltà; riorganizzare i saperi, il loro studio e la loro trasmissione nelle Università”. In particolare da questo ultimo punto di vista deve essere, aggiungo io,  decisivo il ruolo di un organismo come il Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Siamo d’accordo. In ultima analisi quello di cui abbiamo bisogno sono un’università e una ricerca che siano interni alle problematiche sociali. Dobbiamo dire quindi no all’accademia, ma ciò non deve tradursi in una bruta subalternità alle istanze dell’impresa privata. Profumo, che è persona di buona levatura (come d’altronde anche Monti, e chi può negarlo?), che cosa ha da dire al riguardo?

Chiudo con un riferimento a un’università un pò particolare ma di grande interesse sotto vari punti di vista: quella interculturale, con la quale ho avuto occasione di collaborare, costruita dagli indigeni del Cauca colombiano, in stretta aderenza ai bisogni della comunità in una situazione di grave difficoltà per l’esistenza del conflitto armato e l’esistenza di una situazione di oppressione plurisecolare.

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