Ormai sono alcune ore che seguiamo la nostra guida polacca all’interno del campo di Birkenau. Il freddo pazzesco, quindici gradi sotto zero, ci fa lasciare scoperti soltanto gli occhi, attraverso i quali posso vedere gli sguardi sgomenti del gruppo formato dai soli adulti presenti sul “treno della memoria”, che anche quest’anno è stato organizzato dalla Fondazione Fossoli. Tutti gli altri gruppi sono composti dagli oltre seicento ragazzi, studenti delle superiori, provenienti da diverse scuole modenesi.

Continuiamo a ripetere, tra noi: “Ma come facevano a resistere a questo freddo?”. Noi siamo imbottiti dei migliori abiti ad alta tecnologia, mentre loro affrontavano gli inverni più freddi del secolo con un pigiama a righe, zoccoli di legno e poco altro. Eppure io avevo appena visto il documentario di Roberto Olla, “Le non persone”, e la testimonianza di una ex deportata che spiegava benissimo come le sofferenze insopportabili non fossero quelle atmosferiche, ma le umiliazioni, le separazioni, le crudeltà gratuite.

Siamo proprio nel punto del campo in cui, nel documentario, Goti Bauer, deportata a Birkenau il 16 maggio 1944 insieme ai genitori e al fratello, unica sopravvissuta della famiglia, è in piedi, appoggiata al muro della baracca di fronte alla quale il dottor Mengele selezionava le persone sane, utili al lavoro, da quelle che dovevano invece proseguire il percorso per altri trecento metri, ignare che ad attenderle ci sarebbe stata non una doccia, ma una lenta morte nelle camere a gas. È in questo punto preciso che Goti Bauer, 87 anni, ha salutato la mamma per l’ultima volta. Ancora oggi l’immagine che proprio non riesce a dimenticare, non vuole dimenticare, è quella della mamma che continua a voltarsi verso di lei e la saluta con la mano cercando di nascondere lo strazio di un abbandono. Goti Bauer non ricorda il gelo: ricorda quel saluto e la terribile sofferenza della separazione.

Il caso vuole che esattamente in questo punto la guida, sfuggendo al protocollo, inizi a parlare con un tono diverso. E il calore delle sue parole attirano la nostra attenzione: “In questi giorni ospito a casa mia una signora. È anziana, poverina, ed è venuta a Cracovia perché vorrebbe rivedere almeno qualcuno della famiglia che l’ha accolta dopo essere stata liberata dal campo di sterminio di Birkenau, grazie all’intervento dei soldati russi. Era una bambina, allora, di cinque anni. Come molti dei bambini sopravvissuti e liberati insieme a lei, era stata curata e affidata alla Croce Rossa. I volontari, a loro volta, l’avevano consegnata a una famiglia del luogo che, come tante, aveva dato disponibilità ad accogliere i bambini, nell’attesa che la Croce Rossa iniziasse le operazioni di ricerca dei genitori. Operazioni che – è superfluo ricordarlo – spesso risultavano vane o conducevano a risultati certamente non confortanti. La maggior parte dei genitori era morta nel lager.

Sua madre, invece, no: è sopravvissuta e per tre lunghissimi anni ha cercato disperatamente la figlia, senza mai rassegnarsi all’idea di averla persa per sempre… Fino al giorno della chiamata della Croce Rossa, che la informa che a Cracovia una bambina potrebbe essere sua figlia. La madre parte immediatamente e in breve tempo riesce a incontrarla. C’è un problema, però: la bimba non riconosce la madre. Anche solo alcuni mesi nel campo di Birkenau possono trasformare una persona. Il corpo è mortificato per sempre, i capelli cambiano colore, le note di gioia scompaiono definitivamente dalla voce. La mamma non si rassegna: ha portato con sé un gilet abbottonato sul davanti da cinque piccoli bottoni di madreperla. Tastare quei bottoni era sempre stato il gioco preferito di sua figlia. La prende in spalla, come faceva una volta quando piangeva, e la bimba comincia subito a toccare i bottoni, li riconosce, sorride a sua madre stringendola forte”.

La storia finisce e noi siamo lì, con lo sguardo a terra per nascondere le lacrime. Carlo Lucarelli, straordinario compagno di viaggio, ci aveva appena esortati a cercare, tra i milioni di volti scomparsi, una singola storia per trovare in essa il nostro punto di rottura, quello che ci avrebbe aiutati a ritenere insopportabile tutto quanto stavamo osservando attorno a noi. Io l’ho trovato lì, paradossalmente in una storia a lieto fine raccontata in una cornice di orrore.

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