Sì, i francesi tirano fuori da me il peggio, il quasi inconfessabile. Ma, per onor di cronaca, anche il meglio. Per averlo già scritto, vi linko, solo per esempio, com’è nato il mio baccalà gratinato alla Cassi. Sì, per vincere con i francesi vale tutto, anche la bugia. Come del resto fanno anche loro.
Di recente, con grande soddisfazione, ho giocato contro la loro formazione più classica, più sfruttata, più ovvia. Ne puoi trovare di rispettabilissime ovunque, nei loro ristoranti blasonati e non, come nei loro autogrill o a bordo dei turisticissimi notturni bateaux-mouches che, passando sotto i ponti parigini, li inebriano di luce e, tutto sommato, di buoni profumi. Sì, ho giocato contro la Soupe d’oignon e, ovviamente, ho giocato per vincere.

Anni di terapia, per ben riconoscersi e non rischiare di perdere se stessi, scomparsi in un attimo. Letture e riflessioni che girano intorno al riconoscimento della propria “intelligenza emotiva”, come necessario piano di distinzione e distensione fra te e il resto del mondo. Tutto sparito nel nulla. Questo desiderio inalienabile di gara rende muto un personale mantra quotidiano, applicato con cura nel tentare di capire, e comunque accettare, gli altri, anche davanti all’incomprensione e all’incomprensibile. Tutto inutile. Davanti ai Galli e alle loro “pozioncine magiche” rispondo organizzando cene con Saltinbocca alla romana, con Minestroni alla genovese, con le Lasagne alla ferrarese, con Fegato alla veneziana e giù avanti a seguire, di regione in regione, con la stoccata finale che, come il sale su Cartagine, rende impossibile, dopo il Cannolo alla siciliana, la ricostruzione di alcunché fra quelle quattro cosucce che i transalpini sanno fare in cucina.
Come ogni tifoso, la mia è una fede. E pur amando la Francia, quando li insacchiamo come dei salami, o li farciamo come delle quaglie, divento il più soddisfatto degli uomini. Non vado mai allo stadio e, vivaddio, ignoro le tifoserie locali. Ma, fra i miei amici, c’è chi giura che, durante un mondiale, mi vide urlare paonazzo, saltando sul mio amato tavolo di cucina, sbeffeggiandoli, rivolto allo schermo televisivo, con un goduto: “beccatevi questo sarcophage!”, dando così più di un senso alle loro quaglie, al loro ripieno, al loro friabile rivestimento.

Dunque, affettare il più casalingo e compatto dei pani, per tostarlo, fino al colore del rame, a 90°. Fate poi un primo strato del medesimo, bagnandolo con una brodosissima zuppa di cipolle, ottenuta dal mettere insieme un brodo di carni piemontesi con un pezzetto di coda, una bella gallina e dell’osso di ginocchio, fatto sobbollire lentissimamente per tre ore insieme agli odori classici (sedano, carota, prezzemolo e, in assenza del basilico, un chiodo di garofano) e a qualche cipolla che sbruciacchierete su fiamma viva per dare alchemica potenza al medesimo. Filtrerete poi questo brodo per aggiungervi, prima, le carote e i sedani, recuperate dai suoi odori, ripassandoli con un passino e poi ci verserete un’incredibile abbondanza di cipolle bianche, affettate finemente e precedentemente soffritte lentamente in del buon burro fino a un color rame scuro tendente al bronzo. Ricordatevi di farle afflosciare con un primo calore vaporoso, bagnandole inizialmente con qualche romaiolo d’acqua. Le cipolle e il brodo dovranno ribollire lentamente insieme per un’altra ora trovando così la loro alchimia. Fatta così la prima bagnatura delle fette di pane, fate cascare a pioggia del buon parmigiano grattugiato con la grattugia delle mele. E via avanti così, per non meno di 6 strati di pane, di brodo e cipolle e di parmigiano, concedendo all’ultimo strato una grattugiata di pepe fresco.
Sarà per il nostro pane, sarà per la cura del brodo, sarà perché noi fiorentini produciamo l’olio più buono del mondo, ma quando eravamo capitale economica di quest’ultimo, abbiamo imparato ad amare anche il burro. Sarà certo, comunque, che il parmigiano segnerà il quarto goal in questa partita che, grazie a lui, era già vinta in partenza.

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