La sede di Standard&Poor's

Chi cercava una misura reale della crisi europea, capace di andare oltre gli asettici numeri dello spread o dei fluttuanti indici di borsa, è stato in definitiva accontentato. E poco importa, a questo punto, che a fornire le informazioni sia stato un soggetto ultimamente sempre più impopolare. Il tasso di default nel settore privato europeo, afferma Standard & Poor’s in un’analisi ripresa oggi da Bloomberg, potrebbe passare dal 4,8% di fine 2011 all’8,4% nel corso del 2012. In altre parole, i fallimenti delle società private del Vecchio Continente potrebbero quasi raddoppiare nei prossimi mesi.

Certo, sulla possibile ondata di bancarotte pesano gli effetti complessivi della crisi tra i quali, non da ultimo, quello rappresentato dalla dilagante recessione. Ma l’aspetto più clamoroso della vicenda è in realtà un altro. Ad alimentare il rischio fallimento, infatti, ci sarebbero anche gli effetti collaterali della terapia monetaria della Bce, responsabile di aver sbloccato enormi risorse di liquidità concedendo alle banche denaro a basso costo. Denaro che oscilla oggi tra i rassicuranti depositi overnight presso lo stesso istituto centrale europeo (una sorta di cassetta di sicurezza allo 0,25% di rendimento) e un quasi rinato mercato obbligazionario. Ma che si tiene sapientemente alla larga tanto dai privati cittadini quanto dalle imprese. Ovvero dalla base dell’economia reale.

Quella in questione è soprattutto una storia di numeri, cifre che diventano logiche in un banale confronto aritmetico. Con l’accresciuto rischio sovrano, i titoli di Stato dei Paesi europei rendono ultimamente piuttosto bene. Un investimento in un portafoglio di decennali italiani e spagnoli, può rendere mediamente qualcosa come il 5-6% su base annuale, ben di più quindi non solo del tasso di inflazione programmato, ma anche, e soprattutto, del già citato costo del denaro (l’1%). Le banche, insomma, tornano ad acquistare i bond con la certezza di portarsi a casa una significativa plusvalenza. Ma così facendo dimenticano di finanziare il comparto privato con il rischio di togliere a quest’ultimo l’ossigeno necessario.

In sintesi: dal punto di vista della Bce, il piano di sostegno alle finanze pubbliche starebbe funzionando perfettamente, con le banche che, inondate da quasi mezzo trilione di euro di nuova liquidità, hanno iniziato finalmente ad acquistare quei titoli sovrani nell’occhio del ciclone speculativo. Non è un caso che i rendimenti dei bond di Madrid e Roma abbiano iniziato a scendere in modo evidente, dapprima cedendo sul fronte delle scadenze a breve (3,6 e 12 mesi) e riducendosi poi anche sul lungo termine (3, 5, 10 anni). Solo che in un simile contesto, investire nel comparto privato diventa, a confronto, troppo rischioso soprattutto per chi, come gli istituti di credito europei, è chiamato anche a ridurre il rapporto tra il valore dei depositi e quello delle attività (le famose prescrizioni di Basilea e dell’Eba). Ecco dunque le ovvie ricadute sulle imprese e, gioco forza, sulle prospettive stesse di crescita economica. Ecco, insomma, il paradosso di fondo: tentando di risanare il proprio deficit (dal momento che per gli Stati si riducono i costi di indebitamento sul mercato) l’Europa finisce per aggravare la propria recessione.

I numeri contabili fanno davvero paura. Da qui al 2015, ricorda Standard & Poor’s, le compagnie private “Speculative-grade” (cioè quelle con un rating BB o inferiore) dovranno rifinanziarsi per circa 230 miliardi di euro. Una cifra che molto difficilmente sarà messa a disposizione dalle banche. Per molte imprese, ricorda oggi Bloomberg, il rischio concreto è quello di fare la fine della morente Petroplus Holding, principale azienda di raffinazione del Continente che quest’anno ha perduto l’accesso a una linea di credito da oltre 2 miliardi di dollari. E che oggi ha presentato in tribunale l’attesa richiesta di richiesta di moratoria concordataria dichiarandosi insolvente nei confronti dei creditori.

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