C’è la data definitiva. Si chiuderà il 21 giugno 2012 il capitolo giudiziario che riguarda la morte di Federico Aldrovandi. Il primo giorno d’estate sarà l’ultimo della stagione processuale che darà un verdetto definitivo per l’omicidio colposo del giovane di 18 anni, morto in via Ippodromo il 25 settembre 2005 a Ferrara durante una colluttazione con quattro poliziotti.

In primo grado e in appello Paolo Forlani, Monica Segatto, Luca Pollastri e Enzo Pontani sono stati condannati a tre anni e mezzo (ridotti a sei mesi con l’applicazione dell’indulto). Ora li aspetta la Corte di Cassazione, l’ultimo grado di giudizio utile per far valere la loro innocenza oppure per confermare in via definitiva la loro colpevolezza.

Tra i vari motivi di appello su cui cercheranno di far leva i loro difensori per capovolgere le prime due sentenze figurano – in estrema sintesi – la mancata individuazione della azione alternativa che gli agenti avrebbero dovuto tenere e della efficacia salvifica di ipotetiche manovre di contenimento; la non corretta valutazione del rapporto di forze in gioco per quantificare l’eccesso colposo; l’asserita presenza di una delle due volanti della polizia prima delle chiamate al 113 dei residenti.

Quello che è certo è che le ragioni per cui nacque quella colluttazione fatale rimarranno nel limbo della storia che le aule dei tribunali non sono riusciti  a raccontare. Cause “oscure”, come le ha definite nelle motivazioni della prima sentenza il giudice Caruso, che vide nei fatti di quel 25 settembre “un furioso corpo a corpo tra gli agenti di polizia e Federico”, durante il quale vennero rotti due manganelli, “con i quali colpirono l’Aldrovandi in varie parti del corpo, continuando dopo che lo stesso era stato costretto a terra e qui immobilizzato al suolo, nonostante i verosimili ma impari tentativi del ragazzo di sottrarsi alla pesante azione di contenimento che ne limitava il respiro e la circolazione”.

Ancora più dura la Corte di Appello di Bologna, secondo la quale i quattro poliziotti quella notte hanno “scelto di porre in essere un’azione di contenimento e di repressione non necessaria nei confronti di un soggetto che aveva invece bisogno di trattamento terapeutico”. Quell’intervento, secondo i giudici di secondo grado, fu costellato di errori. A partire dal non aver chiamato un’ambulanza per un “ausilio di carattere medico psichiatrico che si imponeva per la presenza di un soggetto in fase di agitazione acuta” e nel “non avere interrotto l’azione nel momento in cui era apparso chiaro si stava trasformando in un autentico pestaggio”.

A Roma, di fronte ai giudici della Suprema Corte, non saranno presenti i famigliari, che hanno rinunciato alla costituzione di parte civile dopo aver accettato il risarcimento proposto dal ministero dell’Interno. “Saremo presenti nel pensiero di tutti coloro che ci hanno accompagnato in questi anni nella nostra battaglia per ottenere verità e giustizia”, assicura Patrizia Moretti, la madre di Federico. Fu lei a far scoppiare il caso sulle cronache nazionali aprendo un blog, nel gennaio 2006, per raccontare al mondo “come è morto mio figlio”. Perché fino ad allora, a cinque mesi dalla scomparsa, nessuno sapeva ancora con certezza le cause del decesso. Le prime versioni arrivate dalla questura parlarono di overdose, poi di malore. Il questore di allora, Elio Graziano, difese i suoi “ragazzi”, sostenendo che il giovane non era “morto per le  botte”. Si accodò anche il procuratore capo Severino Messina.

Poi, grazie al tam tam della rete, la morte di un diciottenne nella prima periferia di una cittadina di provincia divenne un caso nazionale. “Il 21 giugno è il primo giorno d’estate – aggiunge oggi Patrizia Moretti -; era un giorno che Federico aspettava sempre con ansia. Per lui era un giorno importante e spero che questo sia di buon augurio per confermare l’esigenza di giustizia che sentiamo per lui”.

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