Passeggiare per le strade di La Paz assaporando un Big Mac non sarà più possibile. In Bolivia, dopo 14 anni, chiude la catena di fast food più diffusa al mondo: McDonald’s. Che, nonostante le persistenti e milionarie campagne pubblicitarie, dopo un intero decennio di perdite ha deciso di levare le tende dagli altipiani andini. La Bolivia è il primo Paese in America ad essere lasciato dalla multinazionale statunitense, la cui ritirata è già avvenuta anche in Iran ed Islanda. Un fatto che ora, per la decisione di chiudere i punti vendita dai profitti più esigui, si potrà verificare presto anche in altri Paesi. Non in Italia, dove nonostante le forti tradizioni culinarie gli oltre 400 “ristoranti” McDonald’s sembrano destinati ad aumentare. Perdere interi mercati è però una sorpresa inaspettata per la stessa corporation che, ora, sta facendo in modo di sfruttare a proprio vantaggio la sua crisi di immagine. Come? Convertendosi al “green”.

In Bolivia coscienza sociale e ambientale sono decisamente superiori che in altre nazioni, ma chi la conosce meglio non pensa che il fallimento di McDonald’s sia solamente di carattere ideologico. È vero, in Bolivia sono i movimenti sociali ad esprimere la maggioranza di governo, ricorda dal suo blog il giornalista Gennaro Carotenuto, profondo conoscitore dell’America latina, ma “la grande coscienza dell’impatto ambientale, sindacale, umano, verso il tema” non spiega tutto nemmeno nel Paese andino. “McDonald’s non è rifiutato per motivi politici, ma per più sedimentati motivi culturali”, scrive Carotenuto: “L’ideologia del fast-food sarebbe l’antitesi della naturale cultura dello slow food boliviana, dove il tempo di preparazione, e la condivisione di questo, è tanto importante come l’atto del mangiare in sé”.

Secondo i numerosi intervistati nel documentario Por qué quebró McDonald’s en Bolivia (Perché McDonald’s è fallito in Bolivia), fra cui sociologi, educatori, cuochi e nutrizionisti, il rifiuto dei boliviani non è causato solo dal cibo, invece, ma anche dai problemi dell’attuale contesto sociale ed ambientale generati dalle dinamiche globali di un “McColonialismo” sempre più pervasivo. Anche nel resto del mondo, in effetti, il colosso nordamericano è spesso accusato per motivi di carattere etico e sociale, e soprattutto salutistico ed ambientale. Basti vedere il clamore suscitato da libri come Fast food nation e documentari come Supersize Me o il britannico McLibel.

Secondo Greenpeace, Friends of the Earth e numerose altre associazioni ambientaliste, la catena di fast-food è fra i principali responsabili della distruzione delle foreste pluviali in Amazzonia, sia per il disboscamento praticato per fare spazio agli allevamenti bovini che per la produzione dei miliardi di tonnellate di packaging in cui avvolgere hamburger e patatine. Ma anche, più recentemente, per l’illegale mercato oligopolistico della soia (scoperto proprio da Greenpeace) destinata agli allevamenti europei. “McDonald’s sta distruggendo l’Amazzonia per vendere carne a basso prezzo”, afferma perentorio Gavin Edwards, responsabile della Campagna Foreste dell’associazione ambientalista.

A tutte queste critiche ed alla conseguente caduta in termini di popolarità, McDonald’s sta rispondendo con una vera e propria conversione verde. Negli Usa, già tre anni fa, è stato aperto a Cary, in Nord Carolina, il primo fast-food “verde” della catena. Che, con tanto di parcheggio con torrette per ricaricare le auto elettriche, si trova in una struttura progettata in modo da illuminare il locale soprattutto con la luce solare, e costruita con materiali ecologici e riciclati. In Inghilterra, invece, la multinazionale ha iniziato a convertire i 155 furgoni della sua flotta utilizzando come carburante l’olio da cucina riciclato, l’85% del quale proveniente proprio dai 900 ristoranti presenti oltremanica. Una scelta simile a quella fatta nel 2010 anche da McDonald’s Italia, dove l’intento è anche quello di riciclare le grandi quantità di carta e PET gettati dai suoi clienti.

Un greenwashing che non ha attecchito in Bolivia, il cui mercato non era però così importante per le sorti del colosso statunitense. Con oltre 30mila punti vendita nel mondo e 58 milioni di clienti ogni giorno, infatti, la chiusura degli otto ristoranti andini non farà una grande differenza. Allo stesso tempo, però, non si può escludere l’importante valore simbolico del fallimento di un tale gigante per il semplice disinteresse verso i suoi prodotti di un intero popolo. Evidentemente troppo legato alle sue tradizioni e alla sua cultura per accettare incondizionatamente l’omologazione imposta dalle tendenze globali.

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