Tra le cause della bassa crescita dell’Italia figura anche la scarsa spesa in ricerca delle imprese. Ma se il privato non fa abbastanza ricerca, perché non supplirvi con le università? Uno dei fattori che favorisce il trasferimento tecnologico tra atenei e imprese è la prossimità. Non solo quella fisica, però: occorre anche un certo grado di prossimità cognitivo-sociale. In altre parole, l’azienda deve essere capace di creare innovazione in proprio e l’università di produrre ricerca di qualità in campi rilevanti dal punto di vista dell’azienda. Anche un po’ di marketing aiuta.

Di Alessandra Mori  e Diego Scalise, lavoce.info

Si fa un gran parlare dello stato deludente della ricerca in Italia, che si riflette sul ritardo di crescita e di competitività della nostra economia. Con un’incidenza sul prodotto dell’1,2 per cento nel 2008, la spesa in ricerca e sviluppo del paese è bassa, nel confronto con i nostri vicini europei, e non cresce (Bugamelli L. Cannari, F. Lotti e S. Magri, Si fa presto a dire innovazione, lavoce.info, 9.09.2011). Resta poi inchiodata a un preoccupante 50 per cento la parte che fa capo alle imprese, riconosciuta come la più dinamica, contro valori anche superiori al 60 per cento altrove. La tenuta del sistema nazionale della R&S, quindi, è garantita dal settore pubblico e soprattutto dalle università.

A chi si applica la ricerca?
I motivi sono stati ampiamente discussi: le nostre sono imprese piccole, a matrice familiare, capaci di un tipo di “innovazione senza ricerca”, che molto spesso non sfocia nella brevettazione; modello che sarebbe entrato in crisi per la concorrenza di nuovi esportatori e il diffondersi di nuove tecnologie. (1) Ma se il deficit di spesa si concentra nel privato, perché non lasciare che ciascuno faccia il mestiere che sa fare meglio? È plausibile cioè immaginare che le università e i centri di ricerca pubblici si sostituiscano alla (mancata) ricerca (non) condotta dalle imprese vendendo loro i propri prodotti della conoscenza? In fondo, come diceva Albert Einstein, la ricerca applicata non esiste: esistono soltanto le applicazioni della ricerca.

L’ipotesi della supplenza tra privato e pubblico ha una sua attrattiva e in un lavoro recente l’abbiamo sottoposta a indagine più approfondita. (2) La dimensione delle collaborazioni tra imprese e università nel nostro paese è stata rilevata dalla Banca d’Italia direttamente presso le aziende poco prima della crisi. Nel triennio 2005-07 le cooperazioni accademiche interessavano il 22,3 per cento delle aziende italiane, quota quasi doppia rispetto ai tre anni precedenti; ma soltanto nella metà dei casi si è trattato di una collaborazione con finalità di trasferimento tecnologico. Più diffuso tra le aziende maggiori, soprattutto nell’industria (figura 1a), una volta instaurato, il rapporto si è dimostrato stabile nel tempo. Esiste una certa evidenza empirica che le università traggano un vantaggio non solo economico dalla stipula di questi accordi, per allentare un vincolo di bilancio che si è fatto più stringente negli anni; anche la loro produttività, variamente misurata, ne risulterebbe incrementata.(3)

Ci capiamo: la prossimità cognitivo-sociale
Dal lato dell’impresa, invece, quali sono i fattori che influenzano la probabilità che stringa un rapporto di collaborazione con l’accademia? Un primo elemento è costituito da quello che potremmo chiamare saper parlare la stessa lingua: i rapporti con l’università sono più frequenti per le imprese dotate al proprio interno di un centro di ricerca, anche piccolo, pronte a recepire innovazione da diversi canali, come l’acquisto di macchinari o brevetti, e sufficientemente grandi da possedere le competenze necessarie per capire e sfruttare i risultati della ricerca. L’ipotesi di una sostituibilità pura e semplice tra ricerca pubblica e privata non sembra corretta: le collaborazioni con l’accademia sono più probabili se un’impresa sa fare innovazione con le proprie forze. L’idea sottostante è che i ricercatori accademici e quelli privati condividano un comune circolo di conoscenze (la cosiddetta prossimità cognitivo-sociale di Boschma), frequentino gli stessi convegni, leggano la medesima letteratura, instaurino relazioni anche informali da cui possono nascere occasioni di collaborazione. (4) Tuttavia, università e industria sono comunità solo parzialmente sovrapposte (S. Breschi e F. Lissoni, Quando le idee della diaspora aiutano la crescita, lavoce.info, 13.09.2011). Come è evidente dalla figura 1b, è ancora molto diffusa tra gli imprenditori la sensazione di una sostanziale distanza tra la ricerca accademica e le esigenze aziendali, orientate a un’innovazione pragmatica che non troverebbe interlocuzione nel mondo universitario.

Figura 1. Trasferimento tecnologico nelle imprese italiane (2005-07) (frequenze delle risposte affermative)

Fonte: D. Fantino, A. Mori, D. Scalise (2011)

Stiamo vicini: la prossimità geografica
Il secondo fattore che influenza la probabilità delle collaborazioni accademiche è la vicinanza fisica; non basta però che l’impresa sia vicina a un ateneo qualsiasi: occorre la prossimità a un’università in grado di produrre ricerca di alta qualità in un campo che gli imprenditori valutino rilevante per il business dell’azienda, in sostanza nelle materie tecnico-scientifiche.
L’ultimo esercizio di valutazione triennale della ricerca del ministero dell’Istruzione, università e ricerca del 2006 consente di selezionare gli atenei migliori nelle discipline che le aziende stesse considerano importanti per il proprio settore –individuati mediante un’inchiesta, la Carnegy Mellon Survey, direttamente rivolta ai responsabili delle strutture di ricerca e sviluppo delle imprese, realizzata negli Stati Uniti, ma utilizzata per approssimare la realtà manifatturiera anche di altri paesi. (5) La prossimità geografica gioca un ruolo particolarmente rilevante per la quasi totalità delle imprese, ma soprattutto per quelle piccole; quelle molto grandi, viceversa, stringono alleanze con le università preferite indipendentemente dalla localizzazione. Per loro, la prossimità cognitivo-sociale diventa prevalente e si sostituisce a quella fisica. Su di loro inoltre ha efficacia l’orientamento commerciale dei singoli atenei (il terzo driver), variamente attivi nelle politiche di valorizzazione della ricerca, che però non riescono ad attrarre efficacemente le imprese minori.
Per gettare un ponte tra il mondo dell’impresa e quello dell’accademia, i diversi fattori entrano in gioco in maniera congiunta. La vicinanza fisica di per sé non basta: né le imprese né le università possono semplicemente attendere di venir prescelte per il ballo dal vicino di casa. Le prime devono farsi carico di colmare il gap di conoscenza che le separa dalla comunità scientifica, anche agendo sulla dimensione; le seconde devono puntare a una ricerca di qualità elevata nei dipartimenti rilevanti, non disgiunta da una certa capacità di marketing. Anche l’intervento pubblico, se vuole sfruttare la sinergia tra imprese e università per aiutare a colmare il deficit di innovazione italiano, non può prescindere da questo.

* Le opinioni espresse dagli autori sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’istituzione di appartenenza.

(1) Si vedano in particolare A. Brandolini, M. Bugamelli (coord.) (2009) “Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano”, Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n.45. E A. Bonaccorsi e A. Granelli (2005), “L’intelligenza si industria. Creatività e innovazione per un nuovo modello di sviluppo”. Il Mulino Arel, Bologna.
(2) I risultati presentati si basano sul lavoro D. Fantino, A. Mori, D. Scalise (2011) “Geographic Proximity and Technological Transfer in Italy” Banca d’Italia, mimeo.
(3) E. Breno, G.A. Fava, V. Guardabasso e M. Stefanelli (2002), “La ricerca scientifica nella università italiane. Una prima analisi delle citazioni della banca dati Isi”, Crui, Roma.
(4) R.A. Boschma (2005) “Proximity and Innovation: a Critical Assessment”, Regional Studies 39, 61-74.
(5) La Carnegy Mellon Survey è descritta in W. Cohen, R. Nelson e J. Walsh (2002), “Links and Impacts: the Influence of Public Research on industrial R&D”, Management Science, 48(1), 1-23. I rapporti Netval descrivono lo stato delle politiche di valorizzazione della ricerca delle università italiane, http://www.netval.it

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