Era la fine degli anni Settanta, e Bologna viveva un’altra epoca. Era ancora la città simbolo di un’Italia fatta in casa, con la miseria del dopoguerra alle spalle, il Sessantotto passato e volato via, le aziende che macinavano utili, l’industria da bilanci col segno più e gli studenti che arrivavano da ogni regione per rifugiarsi tra i portici di una città un po’ chioccia e un po’ matrona. Bologna era di tutti. Potevi capitarci anche per un solo giorno e già ti sentivi a casa. Doveva arrivare ancora l’omicidio di Francesco Lorusso, lo studente di Lotta continua  ucciso in via Mascarella, dovevano ancora sgretolarsi le certezze che il 2 agosto del 1980 quella maledetta bomba fascista alla stazione avrebbe portato via per sempre.

Era in quella città che si muovevano personaggi che da lì a breve sarebbero diventati, per motivi diversi, illustri. Uno tra tutti si chiama Umberto Eco, e ieri sera ha festeggiato 80 anni. È stata l’Università a volere che si ritrovasse con amici e colleghi. Una festa intima, privata e riservata, ma che riconosce a Eco il merito di aver creato una parte di quella grande Bologna che ancora si può sentir raccontare in vecchie storie, in bilico tra la realtà e la leggenda.

Eco, piemontese di Alessandria, quando diventa docente di semiologia a Bologna (oggi è professore emerito e preside della scuola superiore di studi umanistici) porta con sé una visione del mondo che la città, ancora ostinatamente provinciale, non vede manco all’orizzonte. Non è ancora il romanziere de Il Nome della rosa, tradotto in 40 lingue, celebrato dall’America all’Oceania, ma è sicuramente uno degli intellettuali più illustri in Italia. È rispettato, ascoltato, tiene sull’Espresso una rubrica, la Bustina di Minerva, destinata a diventare un quaderno settimanale di alta letteratura.

Ma soprattutto Eco, in quella città molto diversa da quella di oggi, porta a spasso gli studenti, che lo ascoltano la mattina e non smettono, fino a tarda notte, quando le lezioni proseguono nei bar e nelle osterie.

E’ il 1978 quando Eco incontra un altro bolognese d’adozione, Francesco Guccini. I due si piacciono subito, fino a spingere Eco a dire che Guccini “è il più colto dei cantautori italiani”, un letterato, più che un musico, l’unico col coraggio di far rimare amare con Schopenhauer.

Come si conobbero lo racconta Guccini al fattoquotidiano.it: “Ci conoscemmo all’osteria da Vito una sera del 1978”, racconta il maestrone. “Fu un incontro bizzarro, perché lui era lì con i gruppo di studenti e mi invitò con loro. Mi disse che mi voleva conoscere di persona e che stava scrivendo un giallo medioevale. Il libro era Il nome della rosa che poi lessi con grande piacere”.

Da quella sera, in qualche modo, complice anche l’amicizia con Roberto Benigni, i due non si persero più di vista. Si divertivano a ingaggiare tenzoni in ottava, strofa composta di otto endecasillabi rimati, i primi sei in rima alternata e gli ultimi due in rima baciata: “Capitò per la prima volta a casa d’amici comuni agli inizi degli anni Ottanta e c’era anche Benigni. Roberto all’epoca non era granché a rimare, oggi è diventato più bravo. E poi non è vero che vincevo sempre io, come racconta oggi Umberto. Diciamo che terzo arrivava Benigni, poi io e primo Eco”.

La frequentazione con gli anni è diventata più rara. Eco ha continuato a viaggiare per il mondo, Guccini si è lasciato alle spalle i portici per tornare a Pavana, sull’Appennino, luogo d’infanzia e dell’età adulta: “L’ultima volta che l’ho visto è stato un paio d’anni fa. Lui era venuto alla Feltrinelli a presentare un libro di Vincenzo Cerami, poi andammo in collina a mangiare a casa di un amico notaio. Abbiamo passato la sera insieme, ma la sfida in ottave non continua più da tempo. Semmai lui e Benigni sono dei campioni di crittografie mnemoniche e non so bene ma è probabile che si sfidino tra loro”.

Guccini al compleanno non è stato invitato. Grave errore. Ma il rettore dell’Università Ivano Dionigi è perdonato in partenza, visto che la festa per Eco è lui che l’ha fortemente voluta. Fosse stato per gli altri Palazzi manco si sarebbe tenuta: “Borges ha scritto che la celebrità è una forma d’incomprensione. Umberto Eco è celebre, non so se così incompreso”, ha detto Dionigi ieri sera “Nonostante la sua fama di dimensioni internazionali Eco è sempre stato presente in aula, attento alle tesi di laurea, agli esami.E poi soprattutto lui è la prova che non siamo tutti uguali. Tutti siamo debitori verso l’Alma mater, a parte Umberto Eco: nel suo caso è la nostra università che dice grazie a lui. L’ha resa più nota, più appetibile e anche più allegra”.

Ha rinunciato alle sue borse dell’ateneo e ha addirittura cofinanziato quelle dell’Ateneo. “È stato di una generosità smodata, per quello sono qui a dirgli grazie”, ha aggiunto il rettore.

Eppoi lui, il festeggiato. Eccolo sbucare da dietro l’angolo, il professore del Nome della Rosa. Sorridente, cordiale. A casa, come una quarantina d’anni fa: “Se i giornali non hanno altre notizie se non questa, andiamo a catafascio. Anzi, a pensarci bene è una notizia vecchia, vecchia di 80 anni Date allora la notizia dell’incontro di Teano”.

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