La sua creatura è l’Fbi, che ha guidato per quasi 50 anni sotto otto differenti presidenti. La sua creatura è un mito dell’immaginario americano, del cinema e della narrativa. E una crudele macchina nella realtà. Ma il creatore resta un mistero che neppure Eastwood riesce a raccontare. J. Edgar è un bel film irrisolto. Denso e magmatico, ma pervicacemente vuoto.

Il regista non sceglie una strada chiara per entrare dentro al “caso Hoover”, a differenza di quel che fece Scorsese in The aviator per raccontare Hughes. Due film uniti sia dallo stesso interprete, il bravissimo Di Caprio, ma anche da Ellroy, ossessionato da entrambi i magnati del potere Usa tanto da inserirli insistentemente nei suoi libri, come numi tutelari dell’innocenza perduta (anzi, mai avuta) del suo Paese. Eastwood privilegia il lato privato del cittadino Hoover, incentrando l’intreccio sul feroce istinto di negazione che lo ho portato a  vampirizzare tutto ciò che ha amato, inserendolo in un sistema scientifico e strutturato, di morta immaterialità. Ma neppure nel privilegiare questa parte, Eastwood definisce un confine, perché c’è anche un lato storiografico, un versante classico del racconto, che in fondo incornicia tutti gli elementi poi disseminati.
Soprattutto, però, c’è una tensione continua a riflettere sull’immagine e la sua falsificazione non dissimile a quella messa in atto dal regista in Flags of our fathers. Quanto Hoover è un vampiro, tanto l’America si nutre di  narrazione come modalità di vita, come forma immediata dell’esistenza. Una forma concomitante, a lato e contemporanea all’azione, così forte da prevaricarla e divorare la realtà. È questa la parte di grande interesse del film, ma Eastwood non la rende né pienamente tematica né la aggredisce del tutto stilisticamente.

Eppure la insegue in maniera costante. Il vero punto di forza di J. Edgar, il suo senso nascosto, è infatti il continuo slittamento temporale, il doppio fantasmatico delle immagini che si inseguono nei decenni, si riproducono con variazioni e ritornano nella ripetizione. Il dispositivo del film parla di un’enorme trappola, di una gigantesca coazione a ripetere che Eastwood mette in scena come attraversamento fantasmatico incessante. Lo vediamo palesemente in alcune scelte di montaggio, in cui il raccordo tra le scene è definito dallo sdoppiamento (Hoover giovane che esce sul balcone e, quando rientra, è vecchio; Edgar con l’amato Clyde Tolson che entrano nello stesso ascensore una volta uomini un’altra anziani) e lo vediamo nei movimenti di macchina. Perché accade spesso in J. Edgar che la macchina da presa preceda lo sguardo dei personaggi, come se la loro storia venisse prima delle loro percezioni (effetto chiarissimo, ad esempio, nel movimento in cui la macchina “coglie” il padre-zombie di Hoover, anticipandone lo sguardo).

Lo vediamo persino nell’irriproducibilità di alcune icone che sono troppo legate alla propria celebre rappresentazione (Jfk e Luther King) e che in quanto tali non possono essere messe in scena in un doppio, impossibile in questo film già spettrale. Lo vediamo nel trucco pesante e ridicolo che invecchia i protagonisti rendendoli, finalmente da anziani, quel che sono sempre stati: maschere. Lo vediamo, moltissimo, nella gelida fotografia che nelle scene d’insieme restituisce agli occhi un consesso di cadaveri. L’idea forte e intima di J. Edgar è infatti che i personaggi, questi personaggi, siano da sempre già morti. Che l’Idea della sicurezza – quella che porterà alla riforma del Federal Bureau of Investigation – che ossessiona da sempre Hoover lo uccida fin da giovane. In J. Edgar c’è il segno di questa fantasmagoria infinita che diventa anche impossibilità di raccontare una realtà che non è mai esistita senza la propria storia (non a caso, il protagonistaè impegnato a scrivere le proprie memorie).

E se questo tema è molto legato al cinema di Eastwood, il nostro resta però un grande regista di narrazione e non un teorico della macchina da presa. Così, alla fine, l’intuizione che corre nel film non diventa mai tratto. Così, il film prosegue nella sua classicità a raccontare episodi salienti del Bureau – il caso Lindbergh – momenti melodrammatici e talvolta ridicoli, incastonati in una sceneggiatura non all’altezza di alcuni risultati cinematograficamente importanti. J. Edgar non è un capolavoro e non è un biopic illuminante, ma è un mistero da osservare. In cui alla fine c’è qualcosa di notevole e addirittura azzardato, rischioso, quindi ricco. A Ellroy bastano tre specificazioni forti per descrivere (e uccidere) il direttore dell’Fbi consegnandocene un’immagine. A Eastwood servono moltissimi segni per farci pensare che la rappresentazione è la natura profonda della società americana. E, perciò, che il cinema non può mai raccontare davvero i propri eroi.

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