Il candidato repubblicano Rick Santorum

Quanto sono significativi i caucuses dell’Iowa? “Sono importantissimi – ci dice Don Racheter, presidente degli scienziati della politica dell’Iowa -. I repubblicani che qua vivono rappresentano un microcosmo perfetto di tutti i gruppi e le tendenze su base nazionale”. Per Gail Collins, opinionista del New York Times, ci si può invece “sentir liberi di fregarsene dell’Iowa. Voteranno al massimo 100 mila persone, che è poi il numero di chi va a vedere la partita di football dei Wolvarines al Michigan Stadium”.

Mentre si avvicina l’apertura ufficiale delle primarie repubblicane (i registrati nelle liste del partito in Iowa si troveranno per esprimere la loro preferenza alle sette di stasera), si susseguono opinioni spesso radicalmente opposte sul valore del voto in questo Stato dell’heartland americano, politicamente conservatore e con una stragrande maggioranza bianca (il 91,3% della popolazione).

La storia, e l’analisi politica, farebbero propendere per una scarsa rappresentatività dell’Iowa. Dal 1976, soltanto in due occasioni – nel 1996 con Bob Dole e nel 2000 con George W. Bush – il vincitore dei caucuses coincise con il candidato scelto alla fine delle primarie. L’Iowa è del resto abitato da una vasta e organizzata comunità di social conservatives, le cui tendenze, soprattutto in tema di religione e morale, hanno pochissimo a che vedere con molti repubblicani USA. In Iowa, nel 2008, John McCain raccolse il 13% del voto, contro uno scintillante 34% del pastore battista Mike Huckabee (che si sarebbe ritirato due mesi dopo, alla vigilia delle primarie in Texas, vista l’impossibilità di battere McCain su base nazionale).

La politica è però spesso molto di più di una semplice somma di percentuali e fatti, e i caucuses dell’Iowa si sono trasformati nell’“American Idol” della politica americana, nel reality show più amato dal pubblico, nel trionfo per tutte le cable TV, che da giorni trasmettono dirette chilometriche da città e campagne dello Stato, con tanto di countdown a marcare l’avvicinarsi dell’ora X. I reporter stranieri – anche loro accorsi a decine – si sono nel frattempo trasformati in perfetti conoscitori di Urbandale, Ankeny e di tutti i sobborghi di Des Moines, la capitale, dove i candidati arrivano per strappare l’ultimo voto. E lo stesso partito democratico ha inviato qui un nutritissimo team di esperti e comunicatori, per controbattere a suon di comunicati stampa ogni minima dichiarazione degli avversari repubblicani.

Il fatto è che i caucuses dell’Iowa contano come primo segnale di dove può portare il grande circo delle primarie, ma contano soprattutto per la capacità di dare una spinta a certi candidati piuttosto che ad altri, rimpinguando le casse dei vincitori e svuotando quelle degli sconfitti. Per questo, nelle ultime ore, i sei candidati si sono impegnati in un tour frenetico di apparizioni, comizi, lunch, strette di mano, giri per chiese, stadi, centri commerciali, cercando di convincere quel 41% di militanti repubblicani che, secondo un sondaggio del “The Des Moines Register”, non sa ancora per chi votare.

L’incertezza è del resto il tema centrale di questa campagna. A poche ore dal voto, la sfida pare limitata a tre candidati: Mitt Romney, Ron Paul, Rick Santorum. La vera sorpresa di questi caucuses è proprio Santorum, ex-senatore della Pennsylvania, ultrà anti-abortista, diventato il candidato ufficiale dei conservatori religiosi dello Stato (delusi dopo il ritiro di Herman Cain, poco convinti delle doti politiche di Michele Bachman e Rick Perry, sospettosi nei confronti di Newt Gingrich). “Ho raccolto più finanziamenti elettorali negli ultimi due giorni che in tutta la campagna”, ha detto Santorum, che deve però guardarsi dall’etichetta di “candidato dei religiosi”, che potrebbe nuocergli in Stati più secolarizzati come il New Hampshire (che vota il 10 gennaio).

“Incorruttibile” è invece la definizione con cui Ron Paul si è presentato all’ultimo comizio a Des Moines. Il candidato libertarian ha attaccato i rivali come “agenti dello status quo”, e ha ancora una volta rilanciato il suo messaggio potentemente anti-federale: “Siamo stufi dell’espansione del governo? Vogliamo difendere la libertà personale in questo Paese?”, ha chiesto alla folla in delirio. Il copione di Mitt Romney, candidato delle élite repubblicane e finanziarie, è invece stato nelle ultime ore sempre lo stesso. Pochi, svagati accenni ai suoi avversari repubblicani, tutta la forza polemica rivolta contro Barack Obama (come se Romney, poco amato dalla base del partito, cercasse di accreditarsi come il naturale e già prescelto sfidante del presidente). “Queste elezioni riguardano il futuro dei nostri figli e l’anima dell’America”, ha detto Romney in un comizio improvvisato a una fiera lungo il Mississippi.

La parola passa ora ai militanti (100 mila? 150 mila? Dipenderà molto anche dalle temperature, spesso glaciali in questa stagione) che si ritroveranno stasera alle sette nei 1774 precincts, “recinti”, assemblee dello Stato. Ascolteranno alcuni di loro presentare le ragioni dei diversi candidati, poi scriveranno il nome del prescelto in segreto, su un foglietto bianco. Sarà il primo atto concreto di queste elezioni, dopo mesi di parole, sondaggi, previsioni. Sarà l’unico gesto che davvero conta, capace di alimentare o di chiudere, per sempre, ambizioni e speranze.

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