Cinema

Caso Englaro, stupro e bestemmia. Bellocchio e 40 anni di cinema controcorrente

Il consiglio regionale del Friuli non vuole che la regione finanzi il film ispirato al caso di Eluana diretto dal regista piacentino. L'ennesimo capitolo della lunga carriera di un cineasta libertario elegantemente in lotta contro le convenzioni culturali e sociali dell'Italia

di Davide Turrini

Questo film non s’ha da fare. Lo dice il consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, una trentina di consiglieri tra Pdl, Lega, Udc e Pd, di fronte a La bella addormentata, il nuovo film di Marco Bellocchio che ha al centro gli ultimi giorni di vita di Eluana Englaro accaduti in una clinica di Udine.

La fronda contro l’ipotesi di film di Bellocchio nasce da un ordine del giorno presentato dall’Udc, arriva fino al presidente (Pdl) della commissione cultura del Friuli e si articola su un paio di punti formali e politici che sembrano ricacciare indietro le lancette della censura preventiva e dell’isteria di stato ai tempi delle commissioni Andreotti: “Non vogliamo passare per una regione dove vige la cultura della morte e soprattutto la legge sul finanziamento degli audiovisivi tende a promuovere il territorio e non una produzione privata a fini di lucro”.

Letta in questi termini si dovrebbero cancellare tutte le film commission regionali, unico vero polmone d’ossigeno produttivo per il boccheggiante cinema italiano contemporaneo, dato che l’obiettivo di uno script di finzione potrà avere la promozione del territorio giusto come sfondo e abbellimento del quadro.

E mentre la Film Commission del Friuli, l’unico organo formalmente competente,  con in mano soltanto la sceneggiatura de La bella addormentata, attende la richiesta ufficiale della produzione Cattleya di Riccardo Tozzi (“una presa di posizione è pregiudiziale, non sarebbe neanche esatto dire che il film è ispirato al caso Englaro, visto che racconta tre diverse storie di fantasia che si svolgono nel clima degli ultimi giorni di vita di Eluana”), in mezzo, anzi di lato, un signore che si chiama Marco Bellocchio tenta di comprendere se potrà ancora una volta mettere in discussione in forma cinematografica alcuni punti sostanziali dell’etica e della cultura dell’uomo contemporaneo, prima di tutto italiano.

“Da uomo di sinistra ho fatto un film sul terrorismo e da ex alunno dei gesuiti ora affronto il tema dell’eutanasia – ha spiegato tempo fa il regista piacentino – quella di Eluana Englaro è una vicenda che mi ha colpito moltissimo e ho deciso di raccontarla nella forma in cui tutti noi l’abbiamo vissuta, ovvero quella mediatica. I mezzi di comunicazione si impadronirono della storia di questa povera ragazza e della sua famiglia”.

Non c’è da stupirsi allora se in Italia è probabilmente rimasto soltanto lui a dedicarsi alla libertà del proprio pensiero espresso, ed impresso, in pellicola. Bellocchio è uno che fa così: prima di tutto, di fronte ad un problema etico/politico, s’interroga. E lo fa provando un senso di sacrale profanazione di tutto ciò che è “normale” non mettere in discussione.

Inutile ricordare che all’esordio il suo Lou Castel ne I pugni in tasca (1965) getta metaforicamente e platealmente la madre giù dal dirupo. Quell’eccesso omicida, quell’andar oltre la tradizionale forma familiare è il primo sasso gettato nello stagno delle convenzioni sociali di un paese terribilmente statico e reazionario.

Nel cinema di Bellocchio c’è quindi l’intuizione, ovviamente nell’assassinio vige il paradosso, di andare un gradino sopra l’ammissibile e il consentito, senza creare visioni pruriginose, provocatorie o pornografiche. Si veda La condanna (1991) dove una donna rimasta chiusa di notte in un museo fa l’amore con un architetto che poi nei giorni successivi denuncerà per stupro. Qui, come scrive il decano dei critici Morandini, Bellocchio pone la domanda in modo disincantato: “qual è la linea di separazione tra assalto (inconsciamente) desiderato e violenza?”. Il film ebbe premi (un orso d’argento a Berlino) ma poco seguito in Italia. Il solito fastidio, la solita insolenza nello smuovere le acque di una pace sociale che non prevede una riflessione culturale sullo stimolo delle sfide artistiche.

Eccolo ancora il regista piacentino farsi sotto come un Maurizio Cattelan visivo e “in movimento”, nel delirio audiovisivo con bestemmia del “porco dio” ne L’ora di religione (2002). Protagonista di un film comunque prodotto da Rai Cinema e dal Ministero della Cultura, è l’Ernesto Picciafuoco di Sergio Castellitto, laico e ateo, posto di fronte alla notizia di beatificazione da parte della Chiesa Cattolica della propria madre uccisa dal fratello, appunto, bestemmiatore. Lo squarcio nella tela del grande schermo è nuovamente di fronte agli occhi e alle orecchie. Senza possibilità di fuga e di redenzione.

Bellocchio non fa altro che seguire il suo istinto d’artista: osserva, riflette, elabora e racconta. E lo ha fatto continuamente depotenziando il peso e la paura di ciò che si cela nell’inconscio del singolo e di una nazione intera. Come in Buongiorno, notte (2003) quando esplora asetticamente il lascito di sangue e contraddizioni storiche delle Brigate Rosse, depositato trasversalmente nella memoria del singolo e della collettività, immaginandosi Aldo Moro che fugge passeggiando tra le auto di una Roma contemporanea.

Con il caso Englaro, infine, ritorna ad una forma di riflessione più pura e a lui consona, in quanto toccato in prima persona dall’educazione cattolica (“da alunno ex gesuita affronto il tema dell’eutanasia”) e naturalmente da essa forzato e incatenato. Quando il cinema sa ancora essere una forma di riflessione sull’esistente partendo dalla propria arte e arrivando a parlare ad un’intera nazione.

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