Non so se le pressioni da molte parti serviranno a far cambiare idea a Lucia Codurelli che si è dimessa da parlamentare perché, parole sue, «votare la manovra del governo Monti è stata una delle sofferenze più grandi della mia vita. Per questo ho pensato che fosse l’ultimo mio atto da deputata».

L’Onorevole Codurelli non faceva parte della schiera dei peones che hanno il solo compito di schiacciare a comando il pulsante del voto in aula; faceva parte della commissione Lavoro della Camera dei deputati, cioè di uno di quegli organi che in un Parlamento effettivamente legiferante e non puramente ratificante hanno il compito importantissimo di esaminare le proposte di legge e proporre emendamenti se necessario.

E proprio dalla commissione Lavoro è passata la proposta di riforma della previdenza, probabilmente proprio la parte della manovra che la Codurelli ha faticato di più ad approvare; evidentemente l’onorevole ha visto frustrati in buona parte gli sforzi che sicuramente avrà compiuto in sede di commissione. Qualche piccolo risultato è sì stato ottenuto, ma non certo quelli che ci si attendeva, in particolare sull’aspetto lotteria dei derogati e sulla mitigazione dello scalone di sesto grado che fa sì che con due giorni di differenza di età ci si trovi la pensione ritardata di 4 anni minimo.

Da lavoratrice pensionata, l’on. Codurelli sa di cosa si parla nella pratica quando si discute di pensioni, e per il dibattito politico, indipendentemente dallo schieramento, la sua è la perdita grave di una persona che può apportare idee qualificate sull’argomento e confrontarle con quelle di chi, invece, l’argomento pensioni l’ha visto solo attraverso strumenti di indagine scientifica e delibera sulle esistenze delle persone dopo avere elaborato tecnicamente dei dati.

Per non essere frainteso, preciso che secondo me anche il contributo degli economisti è necessario in frangenti come l’attuale, però il lasciare solo a loro il timone non mi pare una gran buona idea.

Indipendentemente da come finirà la vicenda, ci sono un po di interrogativi da porsi:

1. Se le voci fuori dal coro vengono messe nelle condizioni di arrendersi, quale garanzia di pluralità di pensieri e di dibattito effettivo ci si può aspettare nel processo decisionale?

2. Se una persona che la pensa diversamente da altre parti del proprio partito non vede altra via che obbedire e poi chiamarsi fuori, quale è lo stato dell’arte della dialettica democratica?

3. Proprio non c’era e non c’è margine per fare e/o modificare una riforma delle pensioni in modo da essere accettata come una medicina amara e non respinta come una pozione velenosa?

4. La possibilità che in Parlamento siedano rappresentanti di tutte le categorie di cittadini comincerà a tramontare (ammesso che sia mai nata in modo effettivo) con l’accettazione delle dimissioni dell’on. Codurelli, lasciando l’agone politico nelle mani di soli avvocati, economisti e politici di professione?

5. Siamo proprio sicuri ( e, soprattutto, è proprio sicura la parte dirigente del Pd) che i punti di vista della Codurelli siano minoritari nell’elettorato potenziale del Pd? E, se la risposta è no, ciò non pone interrogativi circa la sua futura identità e sopravvivenza? Possono sembrare domande fuori luogo, ma se le dimissioni dell’on. Codurelli fossero l’inizio di una diaspora di “welfaristi”, la conseguenza sarebbe una trasformazione quasi genetica e per un altro partito rimasto squisitamente liberal forse non c’è spazio.

Ai posteri le ardue sentenze.

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