“Giuro davanti a Dio e alla nazione di salvaguardare l’unità nazionale, di lasciarmi guidare solo dall’interesse generale e dal rispetto dei diritti della persona umana”. Con questa formula recitata davanti ai giudici della Corte suprema e a poche migliaia di sostenitori, oltre a qualche ambasciatore straniero e all’unico capo di stato presente, Robert Mugabe, Joseph Kabila si è insediato oggi per un nuovo mandato quinquennale come presidente della Repubblica democratica del Congo, il più grande paese dell’Africa.

La cerimonia, che si è svolta nel quartiere Ngaliema, nella parte occidentale della capitale Kinshasa, dopo il rinvio deciso fino a quando la Corte suprema non ha confermato i contestatissimi risultati delle elezioni presidenziali dello scorso 28 novembre, vinte ufficialmente da Kabila.

Temendo manifestazioni dell’opposizione, Kabila – succeduto nel 2001 al padre Laurent, mentre il paese era in preda a quella che è stata definita “la guerra mondiale africana”, finita nel 2003 dopo oltre 4 milioni di morti e almeno otto paesi coinvolti – ha ordinato che il giorno del giuramento fosse festa nazionale e che l’esercito presidiasse i punti nevralgici della città, anche con i carri armati. Le opposizioni, da parte loro, avevano convocato per oggi uno sciopero generale con il risultato che la giornata è stata molto tranquilla a Kinshasa, nonostante le accuse di pesanti brogli elettorali che pesano su Kabila. Accuse confermate dai rilievi degli osservatori internazionali che hanno verificato pesanti irregolarità nel voto.

Manifestazioni di protesta si sono invece svolte all’estero. A Bruxelles, in particolare – la Repubblica democratica del Congo era una colonia del re del Belgio – dove circa duemila persone hanno manifestato contro Kabila. La polizia belga è intervenuta con la mano pesante, con tanto di spray urticanti e cariche della polizia a cavallo. Una ventina di manifestanti sono stati arrestati.

In Congo, intanto, Etienne Tshisekedi, il principale esponente dell’opposizione a cui la Corte suprema ha assegnato il 32 per cento dei voti rispetto al 49 per cento ottenuto da Kabila, ha chiesto all’esercito di non obbedire agli ordini del nuovo presidente ed è arrivato a dire, nella prima conferenza stampa dall’annuncio dei risultati elettorali, che “chiunque mi porterà Kabila vivo riceverà una grande ricompensa”.

L’entourage del presidente sembra non dare peso alle roboanti minacce di Tshisekedi e l’esercito non sembra intenzionato a lanciarsi in un ammutinamento che rischia di far sprofondare il Paese in un nuovo gorgo di violenza interna. Tuttavia è chiaro che le elezioni, le prime organizzate dal governo anche se con la partecipazione di osservatori internazionali, e che avrebbero dovuto segnare il radicamento di un sistema democratico in Congo, hanno invece fatto tornare in superficie le profonde divisioni del paese, che è agli ultimi posti delle classifiche mondiali dello sviluppo, nonostante – e secondo molti a causa – delle sue enormi ricchezze minerarie, che fanno gola sia ai paesi vicini che alle multinazionali straniere. Durante la campagna elettorale e nei giorni del voto ci sono stati almeno 20 morti in scontri tra i sostenitori di Kabila e quelli delle opposizioni.

Critiche alla trasparenza del processo elettorale sono arrivate dall’ambasciatore statunitense a Kinshasa che ha detto che il voto è stato “seriamente viziato”, nonché dagli osservatori del Carter Centre, per i quali il risultato “manca di credibilità”. Kabila da parte sua ha ammesso che ci sono stati “alcuni problemi” in determinate zone del paese ma ha detto che l’estensione di questi problemi non è tale da mettere in discussione il risultato complessivo del voto. I giudici della Corte suprema sono stati dello stesso parere e venerdì scorso hanno confermato la vittoria di Kabila, prima di accettarne il giuramento di investitura in una Kinshasa sospesa tra la quiete forzata e il timore per durissimo un confronto politico che facilmente potrebbe trasformarsi in una nuova guerra civile.

di Joseph Zarlingo

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