Un paio di settimane fa, alla vigilia del voto per l’elezione del presidente della Repubblica Democratica del Congo, avevo concluso il mio post con queste parole, prese in prestito da The Mission Song di John Le Carré. Dopo l’annuncio della vittoria, tristemente scontata, del presidente uscente Joseph Kabila, la “voglia di uccidere lo Stato” del popolo congolese è aumentata pericolosamente e nel Paese africano è scoppiato il caos. Caos che va a sommarsi a quello accumulato negli ultimi decenni grazie soprattutto a Kabila e ai buffoni che lo hanno preceduto nel dissanguare la nazione.

Kabila si è imposto con il 48,95% dei voti contro il 32,33 % ottenuto da Étienne Tshisekedi, presidente dell’UPDS (Unione per la democrazia ed il progresso sociale). Tshisekedi, definito da molti il Mandela del Congo per la sua linea che predica un cambiamento radicale attraverso la lotta non violenta, ha anche lui i suoi scheletri nell’armadio: prima di essere messo ai margini della scena politica è stato primo ministro negli anni ’70, quando il Paese si chiamava ancora Zaire ed era comandato da un altro buffone coi fiocchi: il maresciallo Mobutu, re incontrastato della cleptocrazia africana.

Il ritardo di 72 ore con cui la Ceni, la Commissione elettorale indipendente, ha annunciato i risultati delle elezioni ha alimentato il sospetto di un complotto. Nel Katanga, Kabila ha ottenuto il 100% dei voti con un tasso di partecipazione del 99,46%. La vittoria è stata contestata da Tshisekedi, che a sua volta si è autoproclamato presidente.

Sparatorie, disordini, abusi, intimidazioni da Kinshasa a Mbuji-Mayi, da Lubumbashi a Bukavu, il Paese è stato travolto dall’arrogante e violenta ignoranza degli sgherri di Kabila e dalla rabbia di un popolo che non ne può più di subire ingiustizie quotidiane.

Ovviamente la comunità internazionale non si è esposta. Come per la lunga guerra civile (mai terminata realmente), l’Occidente non vive particolari sensi di colpa. Altre situazioni più massmediatiche hanno catturato l’attenzione dei telespettatori. In Congo non ci sono cattivoni come in Libia, non c’è il petrolio dell’Iraq, non c’è un’ apparente facile soluzione come quella scelta per l’Afghanistan.

In Congo l’Occidente può andare e depredare con il beneplacito del dittatoruccolo-buffone di turno. Non c’è bisogno di inventarsi armi di distruzione di massa, l’Occidente vede la popolazione del Congo non come una minaccia, ma come una forza lavoro utilissima per arricchirsi.

In Congo ci sono diamanti, cobalto, germanio, rame, stagno, zinco, cadmio, argento, oro, berillio, manganese, uranio, tungsteno, radium, carbone… l’industria mineraria congolese è molto ricca, ed è per questo che i belgi, e non solo, hanno depredato questo Paese. I media ci educano con la favoletta che noi siamo più forti, che le popolazioni del Terzo Mondo vanno considerate alla stregua di bambini irresponsabili e i media hanno il potere.

L’anno scorso, durante la stesura finale de Le bestie. Kinshasa serenade, chiesi al viodeomaker e scrittore Filippo Landini di realizzare un breve documentario che aprisse al booktrailer vero e proprio del romanzo. Il filmato, Docu Dada Congo, racconta in pochi minuti la storia del Paese africano, dall’antichità ai giorni nostri. Sullo schermo scorrono le facce di tanti buffoni. In secondo piano, tristemente, vittime, generazioni di vittime: il popolo congolese.

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