L’Uzbekistan bocciato senza appello sul fronte dei diritti umani. Nel Paese asiatico, fra i più poveri del mondo, attivisti e avvocati sono ridotti sistematicamente al silenzio e torture e violenze sono una prassi diffusa su larga scala. Il tutto mentre in Occidente molti Paesi preferiscono, per motivi strategici, soprassedere su quanto avviene.

A stroncare la politica uzbeka sulle libertà individuali ci ha pensato un durissimo rapporto realizzato tra il 2009 e il 2011 e pubblicato oggi da Human Rights Watch. L’organizzazione internazionale, che non fa sconti a Tashkent, snocciola dati e testimonianze secondo le quali le violazioni sono una vera piaga e la tortura un problema “cronico” in un Paese dove gli osservatori delle Nazioni unite sono banditi da quasi un decennio.

Chiunque può finire nel mirino della temuta polizia uzbeka, e per gli attivisti la probabilità cresce di netto. Secondo HRW, gli agenti fanno ricorso sistematicamente a torture di vario genere per estorcere confessioni e ottenere la denuncia di altre persone mentre i magistrati approvano spesso le richieste di incarcerazione avanzate dalle procure in maniera quasi sistematica, senza valutare la fondatezza delle accuse. Il tutto mentre i sospettati possono essere tenuti in stato di fermo anche per 72 ore prima dell’udienza di convalida.

Un quadro tra i più allarmanti al mondo, con gli attivisti per i diritti umani oggetto di arresti arbitrari, tenuti in cella anche per mesi in attesa di conoscere la propria sorte, organizzazioni indipendenti della società civile chiuse e altre alle prese con una repressione impietosa mentre il Paese scivola in un pericolosissimo isolamento.

Tutte prassi che hanno radici lontane: nel 2002 i riflettori internazionali si erano accesi, seppur per poche ore, su un caso emblematico che aveva fatto il giro del mondo e spinto l’Onu a definire quello strazio una situazione assai diffusa. Un uomo incarcerato con l’accusa di estremismo religioso era morto in cella a causa delle ustioni riportate dopo essere stato immerso nell’acqua bollente.

A quasi dieci anni da quell’abominio HRW sostiene che l’uso di bruciature indotte con liquidi bollenti sia una pratica usata con regolarità. Chi entra nel mirino delle autorità uzbeke, insomma, rischia l’inferno: percosse con manganelli di gomma e bottiglie piene d’acqua, detenuti lasciati appesi per polsi e caviglie, stupri e vessazioni di ogni genere. Fino ai casi in cui i prigionieri sono stati soffocati con sacchetti di plastica e maschere antigas.

Su tutto questo, sottolinea il rapporto, pesa anche l’ostinato silenzio internazionale. Soprattutto di Stati uniti e Unione europea che negli ultimi anni, complice l’obiettivo strategico di garantire il rifornimento di truppe e attrezzature alle basi Nato in Afghanistan, hanno preferito glissare. Quando non sono addirittura tornati sui propri passi. Come nel 2009, quando Bruxelles ha deciso di cancellare le sanzioni decise in precedenza contro l’Uzbekistan e la Germania (che conta una base militare nel sud del Paese) ha rifiutato di prendere una posizione pubblica sulle violazioni dei diritti umani.

Stesa linea, differita nel tempo, da parte degli States che a settembre hanno iniziato ad eliminare una serie di restrizioni approvate dal Congresso a sostegno dei diritti umani nel Paese asiatico. A giustificare tali decisioni, ufficialmente, l’approvazione in Uzbekistan nel 2008 di una serie di riforme giuridiche che secondo HRW, però, sono rimaste solo un’operazione di facciata.

Anzi, in molti casi il governo ha scelto nei fatti la strada opposta. Come avvenuto con la riforma della professione forense che ha colpito pesantemente l’indipendenza della categoria, costringendo gli avvocati a ripetere ogni tre anni un esame per poter esercitare la professione emarginando di fatto molti di quelli impegnati a sostegno dei diritti umani. “L’Occidente – secondo Steve Swerdlow di Human Rights Watch – Deve aprire gli occhi e riconoscere che l’Uzbekistan è uno Stato paria, con una delle situazioni peggiori nel mondo dei diritti umani”.

di Tiziana Guerrisi

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