Il portone della Borsa di Londra

Una città nella città, o addirittura uno Stato nello Stato? La City di Londra, che David Cameron ha voluto difendere a costo di rompere con l’Europa, è il cuore pulsante, anche se ora molto affaticato, della finanza mondiale. Ed è un’entità anomala di cui pochi conoscono le modalità di funzionamento. Scendendo alla fermata di Bank della metropolitana londinese, l’occhio va subito alle colonne neoclassicheggianti del Royal Exchange e all’imponente edificio della Banca d’Inghilterra.

Oltre agli “addetti ai lavori” con giacca e cravatta d’ordinanza e l’espressione un po’ depressa di chi ha appena letto delle perdite record della Aig o della Royal Bank of Scotland (“buchi” grandi come il pil del Marocco), a girovagare per la City ci sono gruppetti di turisti con telecamere e macchine fotografiche che funzionano a pieno regime. Sanno che “tecnicamente” stanno visitando una sorta di mini-Stato? Un quartiere di Londra che non dipende dall’amministrazione comunale, bensì una realtà a parte. Per l’esattezza una corporazione a sé stante – la dizione esatta è City of London Corporation – che ha un suo sindaco, un suo organo consiliare composto da 100 membri, suoi magistrati e forze dell’ordine.

L’elezione dei consiglieri è prerogativa dei (pochi, solo 8 mila) residenti e delle (molte, solo le banche sono oltre 500) compagnie attive nella City, con il piccolo dettaglio che chi ha più dipendenti e di conseguenza un giro d’affari maggiore ha più potere di voto. Tanto per fare un esempio, un’impresa con 3.500 membri di staff ha diritto a ben 79 voti. Chi comanda disegna a suo piacimento le norme e i regolamenti per la maggior parte destinati a limitare al massimo la pressione fiscale. Uno strumento indispensabile per attirare denaro che si accumula nei forzieri della City.

Un retaggio medievale, quello della Corporation, che sta al sistema finanziario attuale come le splendide chiese del celebre architetto Christopher Wren stanno alle ipermoderne costruzioni che ospitano banche e compagnie d’assicurazioni. Ma se il contrasto tra la splendida cattedrale di St Paul e l’avveniristico palazzo dei Lloyd’s o le audaci linee della Swiss Re Tower può rivelarsi a tratti accattivante, le anacronistiche norme che regolano il funzionamento della City sembrano più un utilissimo strumento per tutelare gli interessi delle imprese e degli istituti di credito che operano nella City (ben 254 di questi ultimi sono stranieri). Secondo John Christensen, del Tax Justice Network, la City è il più grande paradiso fiscale del pianeta, con diramazioni nelle Cayman Island piuttosto che a Jersey, nelle Bermuda, a Singapore o a Hong Kong.

Questa complessa rete tessuta per eludere la pressione fiscale e per “gestire al meglio” i profitti miliardari del mondo della finanza che ruota attorno allo square mile, il miglio quadrato occupato dalla City, non si evince certo dal corposo materiale informativo che si può ottenere visitando gli uffici della Guildhall. Ovvero la sede amministrativa della Corporation, contornata da biblioteche, gallerie d’arte ed edifici scolastici. Anche leggendo i rapporti annuali si ha quasi l’impressione che la City si preoccupi principalmente di sostenere una pletora di iniziative culturali. Non solo, si stanno compiendo molteplici sforzi per ridurre le emissioni di CO2 prodotte sul suo territorio e aumentare la percentuale dei rifiuti riciclati. Per fortuna ci pensa il Lord Mayor, ovvero il sindaco, che attualmente risponde al nome di Ian Luder, a girare il mondo in lungo e in largo per promuovere le attività della City. Attività che di filantropico hanno ben poco, ma riguardano strumenti finanziari a rischio come i derivati (42% del totale del mercato mondiale), per i quali da più parti si chiede una stretta incisiva e una regolamentazione molto rigida.

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