Il consenso verso Mario Monti e il governo tecnico è salito di un punto percentuale in una settimana. Lo ha sostenuto Nando Pagnoncelli martedì 6 dicembre a Ballarò, presentando i suoi consueti cartelli.

Un punto è quasi nulla, ma assume un valore davvero significativo se pensiamo al contesto in cui è stato ottenuto. Stiamo infatti parlando della settimana dell’annuncio delle misure della manovra: una medicina davvero dura da digerire e molto meno apprezzata rispetto a chi l’ha creata, secondo lo stesso Pagnoncelli e secondo un’altra rilevazione del 6 dicembre di Ipr per Repubblica).

La divaricazione tra l’apprezzamento per chi governa e il fastidio per le scelte attuate, ritenute in primo luogo poco eque, potrebbe crescere ancora. A mio avviso crescerà quanto più i partiti entreranno nella discussione sugli emendamenti e quanto più avranno da obiettare sui provvedimenti che li riguardano più o meno direttamente.

Per fare un esempio: la melina parlamentare sul taglio degli stipendi aumenterà ulteriormente, comunque andrà, la distanza tra cittadini e politica. Anche se tutto dovesse essere confermato come da decreto, emergerà la volontà dei soggetti ‘colpiti’ dalla decisione di interferire sulla stessa. La sola discussione, seppur di metodo, è percepita come un privilegio odioso: i pensionati non hanno alcuno strumento per modificare la manovra.

Gli italiani sono pronti ad accettare i sacrifici in ogni caso, ma gridano con forza all’equità: non chiedono di non pagare, chiedono che paghino tutti. E sono convinti che l’equità fosse la priorità di Monti, un presidente del Consiglio che però è debole politicamente (dipende dal Parlamento molto più di qualsiasi presidente del Consiglio del recente passato, pur essendo stato incaricato dalla più grande maggioranza di sempre in Italia) e si deve muovere nello strettissimo spazio tra la necessità di salvare il Paese e l’Euro, e quella di salvare se stesso. Il secondo punto è però ben più importante nella sequenza logica: se cade Monti cade tutto, almeno secondo la stragrande maggioranza degli analisti.

Siamo arrivati dunque a un profondo cambiamento, quasi a un rovesciamento dell’idea di ‘partito’ e del valore sociale che esso ricopre. Doveva essere lo strumento della rappresentanza sociale, e doveva dunque discutere con il Governo e proporre emendamenti nell’interesse dei propri elettori. Oggi è invece percepito come il luogo della somma degli interessi particolari degli eletti e dei nominati.

La cinghia di trasmissione è del tutto compromessa. E ci vorranno anni, forse decenni, per ricostruirla. Le continue richieste di rinuncia ai privilegi da parte dei cittadini, che dal punto economico non muovono cifre tali da poter pensare che siano l’unica priorità o la priorità assoluta (come invece emerge spesso dal dibattito pubblico), sono di fatto una richiesta, spesso malintesa da parte della classe politica, di fare qualcosa di simbolico e di evidente per tornare a stabilire un rapporto di fiducia. Vogliono fidarsi della politica ma hanno bisogno di prove per tornare ad avere fiducia.

Gli italiani hanno bisogno dei partiti e voglia di politica. Ma sono in fuga da 20 anni, da Tangentopoli in poi. Io vedo una continuità e una progressività nelle scelte, nella formazione degli orientamenti pubblici, nella costruzione e distruzione delle leadership di questi anni.

Il 1992 ha rappresentato un esodo di massa dai partiti. L’esodo, di fatto, non è mai finito e continua progressivamente. Ma non si aveva, e non si ha voglia, di disinteressarsi completamente alla cosa pubblica. Si vuole avere fiducia in chi ci governa. Berlusconi ha colto questa esigenza degli italiani e nel 1994, con un programma politico che consisteva, di fatto, in un unico vero costrutto (il “Ghe Pensi mi”), ha conquistato il cuore e la mente di moltissimi. Ha lavorato sulle emozioni, sul bisogno degli italiani di affidarsi a qualcuno che fosse nella politica ma non fosse la politica così come la conoscevano, e ha dominato.

Oggi, 18 anni dopo, assistiamo all’ennesimo, forse l’ultimo passaggio di questa transizione. Dalla politica dei partiti al leaderismo, dal leaderismo all’antipolitica, dall’antipolitica al primato dei tecnici sulla politica. Se Monti dovesse fallire, accerchiato proprio dai partiti da cui gli italiani scappano da così tanto tempo, e se gli stessi partiti non coglieranno la pressante richiesta di fiducia da parte degli italiani, ci saranno le condizioni per l’affermazione di sistemi politici autoritari, rassicuranti, scarsamente democratici.

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