Inverno 2009. Secondo piano del tribunale di Milano, sesta sezione. Fuori piove ghiaccio, dentro il giudice Gemma Gualdi già da qualche minuto ascolta la deposizione di un agente della Squadra Mobile. E’ il processo sulla cosca Morabito e sulle sue infiltrazioni all’Ortomercato di Milano. In quel momento per la prima volta viene reso pubblico il nome di questo 40enne che in pochi anni ha tenuto in scacco due giudici, ha candidato un consigliere regionale in Calabria e ha giocato sui tavoli della politica lombarda. Tutto, sostengono i magistrati, in nome e per conto della ‘ndrangheta.

In aula, intanto, tiene banco la compravendita di una bella villa a Settimo Milanese. Chi vende è Antonio Marchi che di quel processo è imputato. Accusato e alla fine condannato per aver favorito gli affari e gli interessi di una delle ‘ndrine più potenti a livello internazionale. Gente in grado di trafficare centinaia di chili di cocaina e di investire denaro in oltre cento società nel settore delle cooperative. Il dibattimento squaderna sul tavolo la capacità delle cosche di utilizzare il sistema dell’economia legale per finanziare gli affari illeciti. Una rivoluzione. La scoperta è merito dell’allora sostituto procuratore Laura Barbaini.

E in effetti la vicenda della villa è solo un’appendice. Un particolare nel mare magnum di una storia che tiene assieme gli interessi comuni della ‘ndrangheta e di Cosa nostra. Eppure è in quella piccola piega giudiziaria che spunta il nome di Giulio Giuseppe Lampada. L’uomo dei Condello è interessato alla villa di Marchi. Fa di più: la compra grazie al finanziamento di un imprenditore che lavora nel settore del caffè. L’affare finisce anche nelle intercettazioni, ma senza avere alcuna rilevanza penale.

In quel 2009, Milano naviga verso le elezioni di primavera. Si voterà per le Europee, per le provinciali e naturalmente per il rinnovo di qualche consiglio comunale. Già allora, però, Lampada non è proprio uno sconosciuto. Su di lui da tempo restano accesi i riflettori della squadra Mobile. Eppure, ancora prima, sono le stesse fonti aperte a tratteggiarne il profilo criminale. Le sue società sono tante. Alcune si occupano di ristorazione, altre di videopoker. Un interesse quest’ultimo che Lampada condivide con lo stesso Marchi. Buona parte di queste imprese, poi, hanno sede in via Melzi D’Eril 29. Insomma, è la ‘ndrangheta che si accomoda a due passi dal Castello Sforzesco uno dei simboli del capoluogo lombardo.

Le visure camerali a quel punto squadernano sul tavolo gli interessi comuni di Lampada e della famiglia Valle, questa sì ben nota alle cronache giudiziarie milanese. Chi siano i Valle in quel 2009 lo racconta già un report dei carabinieri dell’anno precedente. L’arma vi dedica una pagina e mezzo. Fai i nomi dei componenti della cosca. Ne tratteggia il profilo criminale, affonda l’arrivo del clan agli anni Settanta, quando don Ciccio Valle sale in Lombardia per sfuggire a una faida sanguinosa. Il resto sono processi per usura ed estorsione, il campo privilegiato del sodalizio. Che risulta ricchissimo. Tanto da potersi permettere un ristorante in stile hollywoodiano alle porte di Milano. E’ La Masseria di Cisliano. Ci sono alti cancelli, statue alate, una piscina, addirittura una stalla e naturalmente il ristorante. La società, come è ovvio, non è direttamente riconducibile ai Valle. Finirà sotto sequestro dopo il blitz del primo luglio 2010.

Un altro locale è il bar Dolci di via Carlo Dolci 28. E quello, scopriamo oggi, è stato il quartiere generale di Giulio Giuseppe Lampada. Che nel 2006 assiste con orgoglio al matrimonio del fratello Francesco con Maria Valle. Nozze con location d’eccezione: villa d’Este a Cernobbio.

In quello stesso anno, la squadra Mobile annota: “Ciò che colpisce è il reticolo di interessi intorno a Lampada che partecipa nominalmente a poche società ma è (forse) invece dietro la direzione di molte di quelle intestate ai suoi diversi familiari oltre che personaggi diversi”. Quindi un salto indietro: “Se a Reggio Calabria – scrivono gli investigatori – i Lampada non erano andati oltre una pizzeria e una società di carni, giunti a Milano hanno iniziato ad acquistare ma anche vendere, e dopo poco tempo, licenze; a aprire società (pressoché tutte di capitale) rimaste spesso scatole vuote; a nominare come amministratori di queste ultime soggetti mai incaricati di cose simili o addirittura privi di esperienza lavorativa”.

L’anno è decisivo. Milano corre rapida verso il rinnovo del consiglio comunale. Letizia Moratti contro l’ex prefetto Bruno Ferrante. Si vota a maggio. Ed è in quel momento che compare la figura di Armando Vagliati, già allora consigliere comunale di Forza Italia. La polizia annota un primo incontro il 26 maggio. Ed è quello buona. Lampada e consorte vanno insieme in via Palma dove c’è il comitato elettorale di Vagliati. Qui il politico attende con la moglie. I quattro da lì andranno in centro per partecipare alla festa di fine campagna elettorale della Moratti. Penalmente nulla di rilevante. Il castello inizia però ad avere una sua solidità. Tanto più che oltre a Vagliati compare un secondo politico. Si tratta di Antonio Oliverio, ex assessore nella giunta provinciale di Filippo Penati.

I rapporti con Oliverio, già coinvolto e poi assolto nel processo Infinito, iniziano a farsi intensi sul finire del 2008. E diventano continui pochi mesi dopo. Proprio alla vigilia della campagna elettorale, quando la ‘ndrangheta decide di scendere in campo direttamente. Le cosche puntano sui comuni dell’hinterland. Nel mirino Cormano, ma soprattutto Cologno Monzese paese famoso per ospitare gli studio di Mediaset. E questo nonostante sia da sempre sia un feudo del centrosinistra. Quell’anno, infatti, il sindaco uscente è del centrosinistra. Mario Soldano si ricandida. Lo appoggiano diverse liste. Ci sono anche I Riformisti. Sono ex socialisti. La ‘ndrangheta pesca lì. Il suo candidato si chiama Leonardo Valle, arrestato proprio oggi. La notizia finisce su qualche giornale. Il caso, però, non va oltre a una polemica locale. E comunque sia Leonardo Valle non verrà eletto. I retroscena di quelle elezioni emergeranno un anno dopo. L’inchiesta Infinito, infatti, racconterà di una cena elettorale officiata alla Masseria e alla quale parteciperà il gotha della ‘ndrangheta lombarda. Di più: a sostenere la corsa politica del figlio di don Ciccio Valle arriverà, dalla Calabria, Vincenzo Giglio, medico e cugino del suo omonimo magistrato arrestato oggi.

In tutto questo Lampada media, tiene i contatti, telefona ad Oliverio per chiedere sponde. E quando può chiede all’ex assessore al Turismo biglietti per le sfilate di moda. Nel frattempo, il passato da venditore di carne, è ormai lontano. Ora, il giovane calabrese che, secondo la magistratura, ricicla denaro della cosca Condello, va alla grande: gira in Bentley e in tasca tiene un bel po’ di soldi. Il denaro è quello delle macchinette mangiasoldi. Sono talmente tanti, circa 40mila euro al giorno, che Lampada racconta di aver in tasca la chiavetta per aprire gli sportelli. Chiavetta che definisce il suo bancomat. La confessione viene fatta ad Alberto Sarra, sottosegretario in regione Calabria, che con il nostro ha un rapporto di grande complicità.

Tra i due i contatti si raffreddano, però, nella primavera del 2008, quando su Sarra si allunga sospetti d’indagini per mafia. Lampada non fa una piega e cambia referente: sarà Francesco Morelli, anche lui finito in carcere oggi. Ed è a Morelli che Lampada presenta Vagliati. Motivo: avere un sostegno elettorale.

Insomma, la storia di Lampada dimostra quanto sia penetrante la forxa della ‘ndrangheta soprattutto in una regione, la Lombardia, dove il vero problema è negare l’esistenza della mafia.

E Armando Vagliati? Lui, il politico berlusconiano della prima ora, con Lampada tiene buoni rapporti, “perché – dice Giulio Giuseppe intercettato – lui sa che io sputazza non ne faccio”. Insomma Vagliati si può fidare di questo 40enne simpatico ed esuberante.

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