L’Italia ha una bassa partecipazione alla forza lavoro, soprattutto per le donne, e un’alta tassazione del lavoro. In corrispondenza all’installazione del nuovo governo si è parlato di affrontare il problema della bassa occupazione femminile mediante una tassazione differenziata per uomini e donne. Vorrei fare una proposta alternativa: permettiamo a tutti (uomini e donne) di utilizzare nel futuro le detrazioni fiscali per lavoro dipendente non godute negli anni di inoccupazione. La proposta si applica a tutti, uomini e donne, ma c’è ragione di pensare che sarebbe particolarmente efficace per l’occupazione femminile. Nel seguito spiego meglio le ragioni della proposta; chi è particolarmente interessato può leggere il post originario su Noisefromamerika, che contiene dati addizionali.

L’imposta sul reddito dipende dalle aliquote e dalle detrazioni. In particolare un lavoratore dipendente, per il solo fatto di essere tale, può applicare una detrazione decrescente con il reddito. Limitandoci alle due prime aliquote, queste sono pari al 23% per i redditi fino a 15mila euro e al 27% per i redditi tra 15mila e 28mila euro. Ai redditi inferiori a 15mila euro si applica però una detrazione di 1.840 euro, che poi scende gradualmente fino ad annullarsi a 55mila euro. Le detrazioni sono modulate in modo che un contribuente con un reddito di 8.000 euro paghi zero (1.840 è esattamente il 23% di 8.000). Un contribuente con un reddito di 15.000 euro invece gode di una detrazione pari a 1.338 euro, per cui la tassa pagata è 2.112 euro.

I redditi inferiori agli 8.000 euro non godono interamente della detrazione, dato che la detrazione non si applica oltre l’imposta lorda dovuta. Quindi, per esempio, un contribuente con un reddito imponibile di 5.000 euro avrà un’imposta lorda pari a 1.150 euro (il 23% di 5.000) e userà la detrazione solo fino a tale ammontare, ottenendo un’imposta netta di zero. In particolare chi resta fuori dal mercato del lavoro e in un dato anno ha un reddito di zero non ottiene alcun beneficio dalla detrazione. La proposta è che, a partire da una certa età (per esempio 35 anni), le detrazioni (minime) non godute in un determinato anno possano essere utilizzate negli anni successivi, funzionando quindi come credito d’imposta. Tale possibilità non dovrebbe avere limitazioni temporali.

Per capire meglio, consideriamo il seguente esempio. Consideriamo una donna che ha un figlio a 35 anni e che esce dalla forza lavoro. Resta fuori dalla forza lavoro per dieci anni, mentre accudisce il figlio. In molti casi questa donna non rientra più nella forza lavoro. La scelta di non rientrare nella forza lavoro è influenzata ovviamente dal fatto che il reddito netto che si finisce per percepire non compensa la disutilità del lavoro. Ma ora la nostra contribuente ha un credito d’imposta di 18.400 euro (1.840 all’anno per 10 anni). Questo significa che, su un reddito di 15.000 euro, l’imposta risulta essere zero per 8 anni e pari a solo 608 euro nel nono anno.

Si noti che ho parlato qui soprattutto di occupazione femminile perché, empiricamente, è lì che si concentra il problema della mancanza di partecipazione alla forza lavoro. Il problema è assolutamente drammatico per le donne nel Mezzogiorno. Se guardiamo ai dati Istat (riferiti al marzo 2011) che forniscono il quadro sul tasso di attività per genere, osserviamo che il 48,5% delle donne tra 15 e 64 anni restano fuori dalla forza lavoro, ossia non sono occupate né cercano attivamente lavoro. Per i maschi il numero è 26,9%. In parte ciò è dovuto alle differenti regole di pensionamento, ma il dato è senz’altro abnorme e rende l’Italia una evidente anomalia a livello internazionale. La percentuale di donne fuori dalla forza lavoro è infatti del 35,2% in Spagna e del 33,7% in Germania (meglio evitare di parlare dei paesi scandinavi; questo documento contiene dati aggiuntivi). I dati aggregati però nascondono una realtà molto variegata per età e area territoriale. Rimando al post su Noisefromamerika per i dettagli, ma la conclusione è questa: sono principalmente le donne meno istruite che restano fuori dalla forza lavoro. Per i laureati il tasso di attività per le donne nel Mezzogiorno è del 71,5%, a fronte di un 81,5% per gli uomini, una differenza relativamente piccola e in parte spiegabile dalle diverse regole pensionistiche. Invece se guardiamo alle persone con licenza media, nel Mezzogiorno il tasso di attività femminile è del 25,3% a fronte del 61,6% per gli uomini.

Nel lungo periodo la riduzione del tasso di inattività passa per un aumento della scolarizzazione, ma nel breve periodo, lo stimolo alla partecipazione alla forza lavoro può essere ottenuto solo riducendo la tassazione dei redditi più bassi. Il sistema qui proposto dovrebbe conseguire ciò in modo relativamente poco oneroso per l’erario. Infatti la riduzione delle imposte finirebbe per applicarsi principalmente a persone che sarebbero altrimenti rimaste fuori dalla forza lavoro, e quindi non avrebbero prodotto alcun reddito imponibile.

È una proposta limitata e che non produrrà miracoli (sarebbe necessario alleggerire molto di più il prelievo fiscale e contributivo sui redditi bassi), però dovrebbe risultare attraente sia a coloro che ritengono prioritario ridurre le tasse sia a coloro che ritengono prioritario migliorare le condizioni dei più poveri. Come risulta chiaro dai dati riportati sopra, le donne con alto livello di istruzione partecipano già attivamente alla forza lavoro. Se un aumento della partecipazione si verificherà, questo verrà quindi principalmente dalle donne con livello di istruzione più basso e andrà quindi a beneficio delle famiglie a più basso reddito.

di Sandro Brusco, Noisefromamerika

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