Talvolta ci vorrebbe ben poco per salvaguardare gli interessi dello stato capitalista e nel contempo salvaguardare l’ambiente.

L’Italia, si sa, versa in una crisi economica gravissima e forse irreversibile. Per fare cassa i suoi governanti hanno deciso di vendersi anche la madre, ossia, nella specie, i beni pubblici, ossia, ancor più nello specifico, i terreni agricoli. Col ricavato finanzieranno anche la Tav o il Ponte sullo Stretto, ma questo è un altro discorso.

L’art. 7 della ormai famosa “legge di stabilità” (la 183 del 2011) prevede infatti l’alienazione dei terreni agricoli in proprietà del demanio con prelazione per gli imprenditori agricoli. Fin qui, nulla di male, anzi, potremmo anche essere contenti. Ma ecco quella che i lombardi definirebbero la gabula, l’imbroglio. Anzi, più gabule.

Innanzitutto, non tutti gli imprenditori agricoli sono avvantaggiati, ma solo l’imprenditoria agricola giovanile, ovvero quella che va dai 18 ai 35 anni di età (dopo, secondo il nostro legislatore, sei vecchio…). In secondo luogo, possono essere alienati anche i terreni agricoli situati all’interno di aree protette, con l’assenso alla vendita da parte degli enti gestori. Ricordiamo in proposito che le aree protette nazionali versano spesso in condizioni economiche gravi e che alcuni parchi sono commissariati.

Infine, “nell’eventualità di incremento di valore dei terreni alienati derivante da cambi di destinazione urbanistica intervenuti nel corso del quinquennio successivo all’alienazione medesima, è riconosciuta allo Stato una quota pari al 75 per cento del maggior valore acquisito dal terreno rispetto al prezzo di vendita.” Basta quindi attendere cinque anni e un giorno…

Si poteva pensare non a un’alienazione dei terreni, ma ad un affitto. Si poteva vincolare l’alienazione agli agricoltori tout court o ad associazioni che operano a difesa dell’ambiente. Si poteva escludere di alienare pezzi di aree protette. Si poteva evitare di considerare che le aree agricole diventassero fabbricabili, imponendo un vincolo di destinazione. Si poteva fare ma non lo si è fatto.

Di fronte a una norma brutta c’è però chi comunque plaude. La Coldiretti calcola che dai 338mila ettari di terreni agricoli alienabili (ma conta anche le aree protette?) possono nascere 43mila (sic) nuove imprese agricole condotte da giovani. Un’affermazione che pare forse troppo ottimistica, anche perché non si capisce come si arrivi ad una cifra così rilevante. Affermazione condita peraltro da un dato che dovrebbe far riflettere: fra le attività imprenditoriali preferite dai giovani l’agricoltura si situa al terzo posto dietro le sempiterne costruzioni e il commercio. E su un totale di 720mila imprese agricole, al primo gennaio 2011 65mila erano condotte da giovani sotto i 35 anni.

In realtà, secondo l’Oiga, cioè l’Osservatorio per l’imprenditoria giovanile in agricoltura del Ministero delle Politiche Agricole, i dati che emergono sono invece piuttosto sconfortanti, almeno nel rapporto 2008, redatto nell’aprile 2009. La tendenza all’invecchiamento non cessa: “L’Italia, insieme a pochi altri Stati membri, conta una delle più basse presenze di conduttori agricoli sotto i quarant’anni.” Chi ha ragione allora? E c’è o no da rallegrarsi?

Intanto, la speranza di sottrarre braccia al settore delle costruzioni, ma anche alle coltivazioni Ogm (con buona pace di chi da queste pagine le difende) è l’ultima a morire.

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