L’Italia della malagiustizia ha raggiunto un altro record.

Sono ormai cinquantotto i suicidi in carcere nel 2011 . Una vergogna cui solo i Radicali hanno cercato di porre rimedio, stimolando l’attenzione con scioperi della fame e della sete, sit-in, alleanze politiche impossibili.

Ma non ci sono (ancora) riusciti e il numero di morti è salito a 58.

Infatti, qualche giorno fa si è ucciso un detenuto dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Si trattava di un camionista che aveva fatto una strage nel mantovano. Il giorno successivo si è tolto la vita anche un detenuto del carcere napoletano di Poggioreale, che era stato arrestato per tentativo di omicidio e che ha utilizzato brandelli della coperta in dotazione per darsi la morte.

Certamente i detenuti non sono una categoria che ispira simpatia, ma anche loro, come tutti gli esseri umani, hanno diritto ad un trattamento dignitoso.

Il Consiglio d’Europa e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono già intervenuti più volte per censurare lo stato di detenzione nelle carceri italiane. Il primo ha previsto degli standard minimi da rispettare, dai quali l’Italia appare ancora lontanissima, la seconda ha già condannato più volte l’Italia per violazione dei diritti umani. Ma  nulla è cambiato.

Pure gli operatori del diritto – che ben conoscono il problema – sembrano più interessati ad altri problemi che allo stato di detenzione: le energie spese dalla classe forense per cercare di migliorare le condizioni carcerarie dei soli sottoposti al regime del carcere duro (il cosiddetto 41 bis, cioè i mafiosi e i terroristi, per intenderci) superano talvolta, e di gran lunga, quelle impegnate per assicurare il minimo di dignità ai detenuti normali, che sono la stragrande maggioranza.

E allora, nella indifferenza pressoché generale, si aggiorna il pallottoliere: 58, ma l’anno non è ancora finito.

Il tutto nelle quasi impossibili condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria, schiacciati tra le ritorsioni dei detenuti e le vessazioni – talvolta – dei superiori, e che arrivano anch’essi a togliersi la vita. Dal 2000 si sono uccisi oltre 100 agenti penitenziari.

A cercare di tamponare la situazione sono soprattutto le organizzazioni di volontariato e progetti pilota, come quello, interessantissimo, della meditazione in carcere, fortemente voluto e attuato da un coraggioso monaco buddista di tradizione zen, Dario Doshin Girolami, sul modello della esperienza fatta negli Stati Uniti, con il supporto del San Francisco Zen Center.

Ma è ancora possibile, per tutti noi, fare finta di niente?

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