La morte di una persona che non si conosce fisicamente, ma che si ammira da lontano, coglie sempre di sorpresa. Anche se di anni ne aveva ottantasette. Perché, se una donna è riuscita a lottare, a non cedere alla tensione quando faceva la staffetta per le brigate Gap, e alla tortura quando l’arrestarono, sembra invulnerabile, invincibile, immortale.

Ed è forse per questo che la notizia della morte di Onorina Brambilla, vedova di Giovanni Pesce, il comandante Visone, mi ha colpito, nonostante tutto.

Si erano conosciuti durante la resistenza: Giovanni, una erre francese, testimonianza dell’emigrazione dei suoi genitori, e Onorina, “Sandra” il suo nome di battaglia, di famiglia antifascista. Le chiesero, dopo la guerra, se aveva resistito alle torture per amore, per non tradire Giovanni: “No” rispondeva lei, senza indecisione, “L’avrei fatto per qualunque compagno”. Concedeva interviste, Nori, scriveva (Pane bianco il suo libro di qualche mese fa), ammoniva, partecipava (una delle prime firme per candidare Pisapia alle primarie milanesi). E non dimenticava.

“Eravamo giovani, ci sentivamo belle, allegre. È giusto che venga fuori anche questa nostra normalità. Non eravamo incoscienti, sapevamo di correre dei rischi. Ma volevamo un’Italia diversa, libera, e non c’era altra scelta oltre a quella di resistere e combattere”.

Parole queste lasciate in eredità a chi ha a cuore la stessa Italia che lei sognava: resistere e combattere, non rinunciando alla propria identità e alla propria normalità.

In questi giorni bui, vedremo di non deluderla.

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