Sulla cannula ci sono delle tacche. Indicano la profondità con cui la sonda è penetrata nello stomaco. La mia dice 40, vuol dire che il sondino naso-gastrico non è ancora entrato quanto dovrebbe, da qualche parte tra il naso e lo stomaco è rimasto incastrato. I due medici davanti a me ripetono di respirare a fondo e di bere, provano a spiegarmi dov’è l’ostacolo, ma non ce n’è bisogno, so bene che la sonda si è incastrata in gola, la sento e, quando spingono, la sento ancora meglio. È come avere una spina di pesce conficcata in gola, solo questa è lunga un metro e larga mezzo centimetro.

I conati rendono difficile ragionare lucidamente, con la coda dell’occhio continuo a controllare nessuno faccia cadere la telecamera nascosta, rendendo tutto questo vano. In qualche modo devo far entrare la sonda, altrimenti rischio di essere scartato. Come in un reality mi ritrovo in nomination, solo che in questa casa ci sono in palio altre 5 settimane da cavia umana. Da quasi un mese entro ed esco da questa clinica nel Canton Ticino, a pochi passi dal confine, dove mi hanno promesso 1200 euro in cambio del mio corpo per 6 giorni di ricovero (divisi in due periodi). Su di me e altri 27 soggetti sani, testano gli effetti di un antiacido per lo stomaco e di un farmaco per le disfunzioni tiroidee, “qualcosa di molto simile a un ormone” mi hanno spiegato. Effetti collaterali? “Tachicardia, ansia, alterazioni della frequenza cardiaca, ma siete coperti da assicurazione!”. Nessuno mi sa dire cosa preveda la polizza.

Ai tempi della crisi, si sopravvive anche così. Per le cliniche svizzere questo è un business di tutto rispetto (le case farmaceutiche pagano cifre da capogiro per l’ultima fase di test sui farmaci da immettere in commercio), per chi vive nel nord della Lombardia quello delle cavie umane è un autentico ammortizzatore sociale. 600 euro per due giorni di “lavoro”, si arriva a 4000 franchi per due settimane. Soldi troppo facili perché chi si trova in difficoltà non ceda, soprattutto gli italiani. “Gli svizzeri non ci vengono qui – mi racconta il capo-infermiere mentre mi preleva il sangue – si vergognano. Non ne hanno proprio bisogno, questo è un paese ricchissimo. Il 95 per cento dei pazienti è italiano, il resto stranieri che vivono in Italia”. Non a caso le uniche tre cliniche che offrono questo genere di studi si trovano in un raggio di 30 chilometri dal confine e il personale medico è composto da soli italiani. Professionisti seri, gentili, la cui principale preoccupazione sembra quella di aiutare i connazionali in difficoltà che chiedono di partecipare al maggior numero di sperimentazioni possibile.

Come in una catena di montaggio le persone si avvicendano di continuo: fuori quelli dello studio appena concluso, dentro i nuovi. Si conoscono tutti, si chiamano per nome. L’usciere di un ospedale di Va-rese che non riesce a pagare gli alimenti all’ex moglie, si preoccupa di come spostare i turni nei giorni di ricovero. Accanto a lui tre brasiliani raccontano della loro scuola di ballo che non decolla, così ogni tre mesi si presentano oltre confine, spesso insieme alla casalinga rumena che mi ripete quanto le servano i mille euro con l’arrivo del secondo figlio. Poi gli studenti, giovanissimi. 700 euro sono 6 mesi di tasse universitarie. “In fondo abbiamo solo preso una pasticca e ci hanno tolto un po ’ di sangue, che male c’è?”. Perfino alcuni degli impiegati sono ex cavie. Il nuovo del gruppo si riconosce facilmente, se ne sta in un angolo, sembra vergognarsi: capelli bianchi, occhiali spessi, a parlargli della clinica è stato un collega più giovane. “Ho due figlie all’università, 1200 euro sarebbero una boccata d’ossigeno. Do un’occhiata, se non mi convince lascio stare. Tanto possiamo ritirarci, vero? Lei come ha scoperto di questo posto?”.

Invento, altrimenti dovrei spiegargli che sui forum studenteschi da mesi non si parla d’altro, che ci sono voluti due mesi solo per essere inserito in lista. “Siamo pieni, appena possibile la inseriamo”. Inventare, da quando sono qui, è fondamentale. Inventare una residenza a Varese, visto che per partecipare è necessario risiedere in un raggio di 100 km (se qualcosa andasse storto entro un’ora i medici devono potermi raggiungere); inventare una microcamera che non dia nell’occhio (un finto cellulare) quando ci hanno fatto firmare l’autorizzazione alla perquisizione dei bagagli. Inventare una storia credibile per settimane, mentre mi pesano, misurano la pressione, prelevano sangue. Lunghe chiacchierate da ricordare, per non cadere in contraddizione.

Intanto la sonda è scesa, la flebo rilascia grandi quantità del primo farmaco nella cannula che ho fissa nel braccio. Il mio compagno di stanza, un rappresentante di profumi di Saronno, mi racconta di come lui e la moglie a volte vengano insieme, doppia paga, “ci siamo pagati il matrimonio così”. Due studenti arrivano in ritardo, vedono il tubo nel naso, si spaventano e se ne vanno: “Pensavamo di prendere una pasticca, ma le cose nel naso non ce le facciamo infilare”. I medici attorno a me si agitano, la sonda dice che il mio stomaco non è abbastanza acido per assumere il secondo farmaco. Spostano su e giù il tubo, ancora conati: addio nomination, sono eliminato. I più dispiaciuti sembrano loro: “Se hai bisogno tra poco parte un nuovo studio, ti ci infiliamo”. Annuisco mentre faccio l’ultimo prelievo, una segretaria mi porta il compenso: 150 euro. Tanto vale una cavia che non arriva in fondo.

di Federico Russo

Da Il Fatto Quotidiano del 10 novembre 2011

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