Quando si è sparsa la notizia che Steve Jobs era morto, gli ingegneri di Facebook hanno continuato a lavorare, ma in silenzio. Gli ingegneri di Facebook. Sì, perché c’è un tacito, invisibile filo che collega Jobs a Facebook, o forse meglio sarebbe dire al fondatore di Facebook. Sarà che il blockbuster Social Network ha offerto un ritratto di Mark Zuckerberg, un misto di creatività e determinazione, che ricorda tanto il fondatore di Apple. Sarà che Zuckerberg è il capo dell’azienda, come Jobs, e controlla ogni dettaglio, come Jobs, e non ha passato la mano, anche se l’azienda nel frattempo è passata da una valutazione di mille dollari a sessanta miliardi di dollari. Sarà quello che sarà. Ma per molti, e in primis per gli ingegneri di Facebook, Zuckerberg è l’unico e vero erede di Jobs.

Il filo che collega Steve Jobs a Mark Zuckerberg ha creato come un senso di inevitabilità: Facebook è – o sarà – la nuova Apple. Facebook è la piattaforma dei social network, così come un tempo Apple era – o voleva essere – la piattaforma per i computer. Questo senso di inevitabilità è invisibile ma perfettamente percepibile, perché si respira nell’aria e si avverte sui media. In quella che immagina come una guerra tra titani e che dovrebbe scoppiare l’anno prossimo, l’iconica rivista Fast Company prevede Facebook combattere contro Amazon, Google e ovviamente Apple per il primato assoluto: l’azienda più hot del mondo.

Ora, non è che tutta questa attenzione dei media per Facebook sia al di sopra di ogni sospetto: l’azienda probabilmente andrà in Borsa nella seconda parte dell’anno prossimo, e per allora essere hot non sarà soltanto un complimento, ma anche un prerequisito per una valutazione che raggiunga i cento (100!) miliardi di dollari. Cento miliardi per un’azienda che ha 600 milioni di utenti, un paio di miliardi di dollari nel 2011 di fatturato, e soltanto quattro mila dipendenti (il che significa una redditività di mezzo milione di dollari per dipendente, cioè il 20 per cento più di Apple, tanto per dire. Ma il miracolo avviene quando si confrontano gli altri dati: ogni nuovo utente apporta soltanto 3 dollari in termini di fatturato, ma quasi 200 dollari in termini di valutazione dell’azienda sul mercato finanziario).

Eppure, questo senso di inevitabilità crea anche il suo contrario: più Facebook diventa invasivo, più crea anticorpi. Proliferano i siti che paragonano Facebook a un impero e la sua pervasività sul Web a una colonizzazione. Infatti, in un’economia di mercato, ciò che dovrei fare, se sono insoddisfatto di Facebook, è semplicemente passare alla concorrenza. Ma, come ha scritto recentemente il Wall Street Journal, questo con Facebook è di fatto impossibile. Perché non soltanto i miei amici sono su Facebook, ma anche tutta la mia storia. Insomma, l’impressione è quella di essere confinati, con o contro la nostra volontà, nella prigione dorata di Facebook.

E non è finita qui. C’è la questione della privacy dei dati scambiati tra l’utente e Facebook. E’ sempre stato il tallone d’Achille di Mark Zuckerberg, il quale non è mai riuscito a convincere completamente la blogosfera che i suoi server sono altrettanto sigillati come i conti bancari svizzeri. E infatti ogni mese 600 mila dati ‘scappano’ via, colpa degli hacker. L’affermazione poi di Randi Zuckerberg, la sorella di Mark (già direttore del marketing di Facebook), che “l’anonimato non è per Internet”, ha insospettito parecchi sulle reali intenzioni della società e ha provocato la nascita di una start-up, 4chan, che sostiene che l’identità appartiene all’utente, non al social media.

Prendiamo poi l’interfaccia. L’interfaccia è una componente di Facebook, nel senso che è l’espressione visibile di Facebook. Ma quello che poi si vede – letteralmente – è la mia, di faccia. Così, quando Facebook decide di modificare l’interfaccia – come infatti è successo a settembre – non è proprio come la Coca Cola che cambia il design della lattina. Lo scopo è lo stesso, immagine e marketing, ma gli effetti impattano su di me, sulla mia auto-percezione, oltre naturalmente sulla percezione che gli altri hanno di me. Insomma, ci dovrebbe essere un modo per cui Facebook mi coinvolge nella decisione sull’interfaccia. Ma ovviamente non c’è. Pur apportando un contributo alla valutazione del social media di 200 dollari,  in quanto utente non ho alcun diritto. Ecco perché è scoppiata la rivolta.

L’anno scorso il New York Times parlò di Diaspora, la start-up composta da ex utenti di Facebook che – appunto – si separava dal social media. Ma ora abbiamo addirittura un venture capital che finanzia (2 milioni e mezzo di mezzo di dollari) Unthink, un’azienda di Tampa che promuove l’emancipazione degli utenti di Facebook. In particolare, la missione di Unthink è quello di bloccare la stravagante abitudine di Facebook di cambiare i termini del servizio unilateralmente, senza preavviso, e soprattutto troppo di frequente.

Ci sono poi i siti come Facebook Haters – quelli che odiano Facebook – che superano facilmente il milione di utenti ciascuno, proclamano l’emancipazione da Facebook e guidano l’opposizione. Sono, diciamo così, la versione digitale dei “we are the 99 percent”; protestano perché siano riconosciuti i diritti di quel 99 per cento di utenti che garantiscono il benessere all’1 percento, cioè i dipendenti e proprietari di Facebook.

Saturno, 4 novembre 2011

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