Questa foto che vedete al centro della pagina non è stata allegata agli atti dei processi per la strage di via D’Amelio. Così come non è stata allegata una relazione di servizio redatta da due ispettori della Criminalpol di Catania con una serie di indizi importanti sul luogo di appostamento dei killer con il telecomando di morte: una vetrata scheggiata, smontata e poggiata sul parapetto dell’ultimo piano del palazzo in costruzione, per terra alcune cicche di sigarette, 26 piante ad alto fusto come a proteggere da sguardi indiscreti.

Questa foto è oggi uno degli indizi del luogo in cui si appostò il commando di morte il pomeriggio del 19 luglio 1992: Giuseppe Graviano nel giardino, con il telecomando in mano, Fifetto Cannella undici piani più in alto, di vedetta. Rimasto misterioso per 19 anni, il luogo in cui si appostarono i killer poteva essere individuato nell’immediatezza della strage se si fosse prestata attenzione agli indizi emersi. Ma nessuno si preoccupò di approfondire quella pista, immediatamente trascurata.

Nelle 1.139 pagine della memoria i pm nisseni le definiscono “non poche lacune”; sono le negligenze delle prime indagini “sul campo” pazientemente ricostruite dalla Dia di Caltanissetta, ripartita dalle parole di due ispettori della Criminalpol di Catania che la mattina del 21 luglio di 19 anni fa salirono all’undicesimo piano del palazzo in costruzione di proprietà dei fratelli Graziano, vicini alla famiglia mafiosa dei Madonia, individuando tracce di presenze recenti. Trovarono “una vetrata grande doppia, che io definisco ‘scudata’ – disse uno di loro, interrogato lo scorso anno – che era appoggiata sul parapetto che dava sulla via D’Amelio e che era lineata. La distanza dal luogo della strage era notevole, pur rimanendo un posto molto vicino al luogo del delitto. Sulla terrazza c’erano anche numerose cicche a terra”. Il ritrovamento dell’album fotografico da parte della Scientifica di Roma confermò le parole dei due ispettori: nelle foto si vede il “vetro scudato, alcune cicche di sigaretta per terra, ma anche la presenza di 26 piante ad alto fusto, posizionate all’ultimo piano del palazzo in costruzione subito prima del parapetto, come a proteggere chi fosse stato sul terrazzo da eventuali sguardi indiscreti. I vetri, poi, appoggiati al muro, erano effettivamente danneggiati”.

Eppure nella relazione redatta dopo il sopralluogo compiuto nel palazzo nell’immediatezza della strage nulla di tutto ciò era stato annotato: “Non veniva tuttavia rilevato nulla che potesse far pensare alla presenza di qualcuno nei locali”. Poche, definitive, parole che hanno fatto evaporare una pista pure supportata dalle foto scattate dalla Scientifica, che quelle tracce (infissi divelti e poggiati al muro, le 26 piante ad alto fusto) aveva impresso in un album fotografico, come ha testimoniato un agente.

Carenze investigative che hanno indotto i magistrati di Caltanissetta a porsi una raffica di domande: “Come mai non erano stati effettuati accertamenti sui mozziconi di sigaretta che, anche se non numerosi, erano presenti nel terrazzo del palazzo dei Graziano? Come mai questo diverso trattamento, effettuato dalla stessa forza di polizia ad appena 57 giorni da Capaci, dove invece si era proceduto all’analisi delle cicche di sigaretta? E come mai il vetro ‘scudato’ era appoggiato all’esterno, e scheggiato? Vi potevano essere impronte anche su questo? E inoltre, date le piante messe per occultare chi si fosse affacciato su via D’Amelio, come mai non si era verificato chi (e perché) le aveva posizionate? E dov’era finita la relazione dei due appartenenti alla Criminalpol di Catania?”. “Tutte domande ancor più inquietanti – chiosano i pm – soprattutto se poste all’interno di una indagine che, grazie alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, si sta integralmente ricostruendo anche in ragione delle ritrattazioni di Scarantino, Candura, e Andriotta e delle loro accuse ai funzionari di polizia”. Prescindendo dalla dinamica della strage, le inchieste su via D’Amelio che Spatuzza ha costretto a riscrivere hanno prodotto finora 15 ergastoli per i mandanti mafiosi, passati in giudicato.

Queste recenti acquisizioni, unite alle parole del pentito Fabio Tranchina, consentono di dare un volto ai possibili esecutori e un’identità al luogo in cui si appostarono: “Molteplici elementi fanno ritenere”, scrivono i pm nella memoria, che “Giuseppe Graviano si sia accomodato nel giardino, del resto assolutamente disabitato, di fronte la via D’Amelio” dopo avere scavalcato un cancello in via Morselli; e “non si può escludere che per avere una migliore visuale, Fifetto Cannella si sia potuto posizionare proprio nel balcone terrazzato del palazzo dei Graziano, sul quale, come s’è detto, sono state rinvenute delle cicche per terra. Da quel luogo poteva anche verificare, dopo l’esplosione, quale fosse la più agevole via di fuga sia per sé che per Graviano”, avvenuta, probabilmente, proprio dalla via Morselli, come dimostrato dalle tracce di una “sgommata” rinvenute dai Carabinieri. Una fuga probabilmente separata visto che, come annotano alla fine i pm, dodici minuti dopo “il botto”, i due boss si sono chiamati al telefono, dopo essersi messi in salvo.

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza

da Il Fatto Quotidiano del 2 novembre 2011

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