David Bowie girava con il promo di “Funeral” in tasca già nel 2003. La leggenda narra che il Duca Bianco fosse ossessionato da quel disco e lo facesse sentire a chiunque gli capitasse a tiro. Nel 2004 gli Arcade Fire riuscirono a farsi produrre; il risultato fu che l’album divenne un successo in tutto il mondo.

Il combo canadese è divenuto a stretto giro di posta una delle band di riferimento della musica rock; indipendente o mainstream non è dato saperlo, anche se il successo dell’ultimo album li proietta in maniera decisa non più nei piccoli club di periferia ma piuttosto nelle arene delle grandi città.

Tutto qui? Neanche per sogno! Come in tutte le ciambelle – perlomeno quelle col buco – a fare la differenza è sempre la ricetta: in sette sul palco (ma possono arrivare ad essere molti di più), ovvero una piccola comunità “che si muove, suona e danza” ma che soprattutto abiura la presenza di un leader; Win Butler e Régine Chassagne sono solo i fondatori di questa giovane tribù nella quale l’unico protagonista reale è l’energia scaturita dalla poliedricità di musicisti poco avvezzi alle consuetudini musicali ma abili nello scambiarsi gli strumenti. Così, il bassista diviene batterista, il violinista un chitarrista; se c’è chi strimpella la pianola qualcun altro imbraccia la fisarmonica e, a corredo del tutto, le voci: quella di Régine, flebile e ammaliante, potente e malinconica quella di Win. Non serve altro, la ricetta è fatta, gli ingredienti – dosati magistralmente – garantiscono ai buongustai un  “piatto della casa” prelibato, ovvero il concerto.

Incappare in una esibizione degli Arcade Fire è come salire sopra una giostra fuori controllo, lanciata a tutta velocità dentro il vortice di uno stile diventato nell’arco di tre album un marchio di fabbrica. Non ci credete? Ascoltate Month of May, poco importa se i Pixies sono dietro l’angolo, gli Arcade Fire sono un roller coaster impazzito e dal vivo fanno davvero spavento.

Si potrebbe chiudere qui, se non esistesse il timore di un deragliamento inatteso. I dischi finora usciti, fanno della band qualcosa in cui credere ma bisogna rifuggire “i soliti cori”, quelli che oramai impestano la maggioranza delle produzioni discografiche marcatamente mainstream. Un nome a caso? I Coldplay. Martins e soci ne fanno un uso smodato: cori e coretti infarciscono le loro canzoni, probabilmente per nascondere l’evidente calo d’ispirazione manifestatosi di recente. Ma non sono gli unici: gli U2 (i tenutari della formula) ne abusano già da qualche anno e persino i Red Hot Chili Peppers non hanno saputo resistere “al richiamo del coro canterino”. Se poi vogliamo esagerare, i Muse “fanno conto pari”, senza fare sconti.

Tutti gruppi che, per salvare le proprie ricette, fanno largo uso “di panna” la quale, come risaputo, “aggiusta tutto”.

Nel frattempo il solito dj qualunque, seduto alla destra del fiume Po, si augura sinceramente che gli Arcade Fire possano “continuare a cucinare” rendendosi conto che “certi prodotti”, sono effettivamente scaduti da un po’.

9 canzoni 9 … senza data di scadenza

Lato A

Lover’s Pit • Broken Social Scene

Walking With Thee • Clinic

Monkey Gone to Heaven • Pixies

Sugar Kane • Sonic Youth

Lato B

Plush • Stone Temple Pilots

Even Flow • Pearl Jam

Spoonman • Soundgarden

Breed • Nirvana

Nowhere • Faith No More

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