Licenziamenti mascherati sotto forma di “trasferimenti”. Questo è ciò che lamentano gli ultimi 46 dipendenti della storica sede del pastificio Corticella, creata nel 1948 e ora nella mani svizzere della Newlat Group: “meglio la cassa integrazione dei presunti trasferimenti”.

Le proteste sono iniziate in seguito a una inaspettata lettera di trasferimento, che annunciava loro il dislocamento in varie zone del Paese.  Dopo un tavolo di salvataggio tra istituzioni, azienda e sindacati, e uno sciopero che li ha visti al fianco degli operai della Bruno Magli a inizio ottobre, venerdì 14 ottobre ci sarà l’ennesimo presidio davanti all’azienda a cui parteciperà anche l’assessore provinciale Graziano Prantoni.

In realtà, il trasferimento è l’alternativa al licenziamento, ma le dinamiche hanno gettato nel panico chi questa fabbrica l’ha vista vivere. Il 21 settembre ai dipendenti del pastificio viene recapitata tramite raccomandata, la comunicazione di “chiusura sito produttivo con trasferimento sede di lavoro”. A partire dal 1°dicembre, i dipendenti (che lavorano qui da minimo dieci anni) verranno di fatto trasferiti rispettivamente nelle sedi di Corte dei frati (Cremona), Eboli (Salerno), Reggio Emilia, Pozzuoli (Napoli), Roma, Sansepolcro (Arezzo) e Lodi (Milano), e cessazione della produzione con conseguente dismissione dl sito a partire dal 31 ottobre.

Oltre alla casualità della scoperta e  alla mancanza di preavviso, i lavoratori spingono soprattutto sull’imposizione che deriva dalle soluzioni proposte, che definiscono “un ricatto”: “Queste lettere equivalgono a un licenziamento – racconta una dipendente – perché per me che prendo meno di mille euro al mese e cinque ore di lavoro, trasferirmi a 150 chilometri è assurdo. Ho 48 anni, lavoro qui da 25 anni, e ho visto lentamente lasciar decadere questo posto. Eravamo 240 lavoratori, ora siamo in 46. Se mi dimetto, non ho diritto a nessun tipo di ammortizzatore”. Ognuna di queste persone lavora all’ex Corticella da lunghissimo periodo, dai 10 ai 25 anni.

E hanno scoperto che fra meno di tre mesi, nella migliore delle ipotesi, per andare a lavoro dovranno percorrere minimo un centinaio di chilometri. Di questi, una decina dovrà fare armi e bagagli, e trasferirsi al sud. Però l’amministratore delegato e presidente della Newlat Group (che aveva già inglobato un ramo della ex Parmalat), Angelo Mastrolia ribatte: “Ma quale ricatto. A parte il fatto che siamo ben oltre i tempi previsti dal contratto nazionale, che impone come preavviso un mese di tempo, l’azienda ritiene di aver optato per la soluzione che più tutela i suoi dipendenti. Lei si immagini chi scopre che due mesi dopo verrà messo in cassa integrazione. È meglio?”.

Ammortizzatori sociali o trasferimento a salario invariato, dunque? Difficile a credersi, ma il sindacato stavolta combatte per la cassa integrazione. Sul tavolo c’è la costruzione di un nuovo sito. Ipotesi già ventilata da ben cinque anni, quando la Newlat Group rilevò la ex Corticella, e mai concretizzata: “semplicemente perché prima non vi erano le condizioni per impegnarsi in questo senso”, spiega il presidente dell’azienda di Lugano. Entrambe le parti raccontano di un documento firmato e controfirmato, depositato in Provincia, che stabilisce l’impegno a costruire un nuovo sito nella cinta di Bologna, in cambio delle sfoltimento del personale, con la messa in mobilità volontaria di 24 persone.

Accordo che avrebbe consentito, una volta presentato il progetto, di vendere l’area e rivalutarne l’utilizzo, trasformandola da zona industriale a terreno edificabile, quindi a uso civile. E decisamente più appetibile per i compratori. La riconversione del terreno vincolato all’accettazione della parte sindacale e delle istituzioni, ed è questo che sospettano i lavoratori. Ma Mastrolia smentisce: “non abbiamo assolutamente bisogno di vendere l’area. Per quanto ci riguarda può rimanere così anche vent’anni. Ma non avremmo i fondi da reinvestire nella costruzione di un nuovo sito, necessario viste le condizioni del tutto obsolete in cui verte lo stabile.

“Quel posto non può andare avanti”. E questo è confermato anche dai dipendenti: “questo posto si tiene in piedi con lo sputo”, sebbene attribuiscano le condizioni di un casolare del 1948 alla volontà di lasciar decadere l’azienda: “prima le rilevano, e poi le chiudono”. In effetti, la Tmt Finance (Lugano), non è nuova a questa pratica. Tanto per fare un esempio, nel 2008 il gruppo inglobò lo storico stabilimento Buitoni di Sansepolcro (Arezzo) per la produzione di pasta secca e fette biscottate. Lo stesso fece con altri 12 aziende, tra cui la Newlat stessa e altre storiche marche, come Ala e Giglio, Pezzullo e pasta Combattenti, tuttavia non solo ancora funzionanti, ma rilanciate nel mercato industriale.

L’amministratore delegato si dichiara disposto al dialogo, tuttavia ribadisce che non utilizzerà la mobilità o la cassa integrazione, quando l’azienda può offrire lavoro. “Noi siamo disposti a trovare qualunque soluzione per garantire la continuità lavorativa ai dipendenti, a condizione che sia nei termini della legge. Io non posso utilizzare i fondi dello stato, quando l’azienda il lavoro lo ha”. E aggiunge: “ma poi io non capisco: in un momento di crisi come questo, in cui 2000 operai  della Fiat si trovano a casa in un colpo solo, si rifiuta un salario pieno e si richiede la mobilità? I sindacati stanno sbagliando tutto, e chi ci rimetterà saranno proprio i lavoratori”.

In effetti, se il sito non venisse venduto, non vi sarebbero i soldi da reinvestire nella costruzione di un altro stabilimento, e “invece di far proposte che vadano in direzione di reindustrializzazione, i sindacati si ostinano a difendere una soluzione senza prospettive”. Ma Flai Cgil, che rappresenta la quasi totalità dei lavoratori, non si sposta: “noi abbiamo chiesto il ritiro dei trasferimenti individuali, quindi in realtà non è cambiato niente”, lamenta.

Certo, per alcuni lavoratori però non è così semplice. C’è chi si è visto separare il nucleo familiare tra nord e sud dello stivale, chi si è visto trasferire a Napoli con un preavviso insufficiente per recidere il contratto di affitto trovandosi quindi a doverne pagare due per alcuni mesi, c’è chi deve abbandonare qui la compagna incinta per trasferirsi a Eboli. L’amministratore aggiunge: “le dirò di più: in alcuni casi, per chi andrà a Eboli per esempio, è una grande opportunità, perché con la stessa retribuzione, la persona si trova a dover affrontare un costo della vita nettamente inferiore”. Inoltre “si è tenuto conto di situazioni personali tali da poter permetter questo tipo di trasferimento”. Anche se questo ai lavoratori non risulta.

Manifestare per una cassa integrazione, protestare contro un lavoro a piena retribuzione pur di rimanere a casa. Queste sono le prospettive dei lavoratori in un momento in cui il lavoro è un privilegio.

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