Il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia

Tre certezze per iniziare bene la settimana. Prima ‘non notizia’: “l’attuale governo deve fare alcune cose. E le deve fare in maniera rapida”. Seconda ‘non notizia’: il decreto sviluppo è “l’ultima chance per il Paese” perché qui “o ci salviamo tutti o non si salva nessuno”. Terza e ultima conferma: l’Italia ha bisogno di ripartire perché “oggi le famiglie accendono mutui che domani costeranno di più. Idem le imprese” e il pericolo “è una crescita ancor più bassa in un Paese che già soffre di bassa crescita”.

Emma Marcegaglia sceglie la strada delle ovvietà e, tutto sommato, sarebbe difficile fare altrimenti. Nell’intervista rilasciata ieri nel corso della trasmissione Che Tempo che fa, la numero uno di Confindustria ha lanciato il suo ultimatum al governo (e qui, trattandosi dell’ennesimo, siamo alla quarta ‘non notizia’) agitando le acque in attesa della decisiva partita sul decreto sviluppo. Tutto già visto e sentito, insomma, almeno apparentemente. Eppure, a ben vedere, quelle espresse da Emma non sono esattamente parole al vento. Dal momento che – ed è questa la vera notizia – dopo mesi di schizofrenia generale, anche il mercato sembra avere finalmente offerto un’indicazione chiara sulle priorità di intervento.

A centrare il pieno il significato del problema ci hanno pensato gli analisti di Cma Vision, uno dei principali monitor globali del mercato dei derivati. Nel 3° trimestre dell’anno in corso, evidenzia un rapporto pubblicato nei giorni scorsi, il rischio sovrano calcolato in base al prezzo dei derivati assicurativi sui titoli di Stato – i sovereign credit default swaps, Cds – è aumentato per tutte le nazioni del pianeta. Ma con una sola, incredibile e paradossale eccezione: l’Irlanda. A metà luglio, chi avesse voluto assicurare 10 milioni di credito con Dublino, doveva scontare il peso di circa 1.200 punti base, ovvero sganciare la bellezza di 1,2 milioni di euro. Oggi, dopo tre mesi di turbolenza finanziaria quasi senza precedenti, la cifra necessaria per coprirsi dal rischio è crollata a 754 mila euro. Il prezzo dei Cds sui titoli italiani, al contrario, è letteralmente esploso: dai circa 170 punti base di fine giugno siamo passati ai 450 odierni dopo aver toccato un picco negativo di 550 nel mese di settembre (550 mila euro per assicurare una decina di milioni). Domanda: cosa c’entra tutto questo con l’attesa per il decreto sviluppo? C’entra eccome. Almeno per un paio di motivi.

Primo: se la parabola di Dublino si fonda su una qualche specificità, allora quest’ultima non può che riscontrarsi nelle rinnovate prospettive di crescita. Secondo le ultime previsioni della sua banca centrale, l’Irlanda vedrà ora la sua economia crescere dell’1% entro la fine dell’anno e dell’1,8 nel corso del 2012. Niente male per quello che è stato il secondo Paese dell’Eurozona a sottoscrivere un piano di salvataggio targato Ue/Fmi. Il Portogallo, tanto per fare un raffronto, andrà invece incontro all’ennesima contrazione: meno1,9 nel 2011 addirittura -2,2 il prossimo anno. E l’Italia? L’unica certezza è ormai la continua correzione al ribasso. Recentemente la Commissione europea ha ridotto le stime sull’incremento del Pil italiano per il 2011: +0,7% contro l’1% indicato precedentemente, ipotizzando addirittura la crescita zero per il semestre giugno-dicembre. Se tre indizi fanno una prova la conclusione è evidente.

Seconda questione: il mercato dei Cds sovrani è diventato in qualche modo un po’ meno ‘speculativo’, o, per meglio dire, decisamente più attendibile. Fino a qualche tempo fa, l’acquisto di Cds costituiva la strategia privilegiata del gioco al ribasso sui conti pubblici delle nazioni a rischio. Ma dopo il chiarimento espresso dall’International Swaps and Derivatives Association di fronte al dubbio atroce di ogni operatore ribassista – il default selettivo (quello della Grecia, per intenderci) non comporta la liquidazione dei titoli ovvero non genera guadagni per detentori di Cds – i trader hanno progressivamente abbandonato la speculazione sui derivati puntando direttamente sui loro sottostanti: i titoli di Stato (ecco, per altro, il motivo delle super impennate estive degli spread). E così, gli stessi Cds hanno smesso, di fatto, di ‘anticipare’ il mercato, limitandosi – almeno è questa l’impressione generale – a fotografarne gli umori. Da agenti patogeni della speculazione, quindi, a unità di misura della fiducia delle piazze. Proprio quella fiducia che l’Italia ha smesso da smesso da tempo di suscitare.

L’inestricabile dilemma austerity vs stimoli (alla crescita) ha animato le discussioni tra governi e regolatori di tutto il mondo. Ma a quattro anni dallo scoppio della crisi globale, il dibattito sembra ormai risolto. In assenza di espansione l’austerità contabile non funziona, anzi, è controproducente. Se così non fosse la Grecia sarebbe ancora tra noi e Georgios Papandreou avrebbe persino qualche argomento a suo favore di fronte a chi, con legittima esasperazione, occupa ormai tra uno sciopero e l’altro le sedi dei suoi ministeri. Ora l’Italia “non è la Grecia”, specifica la Marcegaglia, ma questa è proprio una magra consolazione. Soprattutto di fronte ai programmi di base del tanto atteso decreto, tutti o quasi rigorosamente orientati più ai tagli che alle riforme. Sul tavolo uno studio per l’ennesimo condono (edilizio e fiscale) oltre alla determinazione delle conseguenze della maxi sforbiciata da 7 miliardi ai budget dei ministeri. Come a dire, la necessità di fare cassa che prevale su tutto, anche e soprattutto sulle ipotesi di alleggerimento fiscale per i cittadini, quelli cui il Governo aveva sempre spergiurato di non voler mettere le mani in tasca.

E così, in attesa di chiarimenti, l’unica vera certezza è solo la famosa riforma dell’art. 41 della Costituzione, il previsto “liberi tutti” che, tra le altre cose, dovrebbe garantire alle imprese la possibilità di gestire in piena libertà i rapporti contrattuali con i dipendenti, rapporti a loro volta già condizionati dalle deroghe ormai vigenti alle regole collettive nazionali. Una norma che rischia di fare poco per la crescita salvo, tuttavia, alimentare un po’ di consenso in una Confindustria che, a forza di ultimatum e manifestazioni di delusione, ha comunque già ottenuto sul fronte della contrattazione una vittoria senza precedenti. Ma questa, ovviamente, è tutta un’altra storia.

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