L’ultima volta che ero stata a Pechino era il 2007. La Pechino preolimpica era un cantiere a cielo aperto. Mentre si costruivano gli stadi e le infrastrutture, si distruggeva e ricostruiva il centro della città. Non c’era strada che non fosse un cantiere. Ancora oggi si dice che l’investimento più stupido che si possa fare a Pechino è comprarsi una mappa. Sicuro che tempo un mese la geografia urbana è cambiata.

In quattro anni, oltre al nido d’uccello, alla torre della televisione di Stato e alcuni altri, notevoli, gioielli architettonici, sono sorti interi quartieri e hanno inaugurato cinque nuove linee metropolitane, compreso il trenino veloce che dall’aeroporto ti porta in centro in mezz’ora. Gli hutong, i quartieri tradizionali con le case basse e il bagno comune in strada, sono oggi in gran parte sostituiti da enormi condomini di palazzi a sei piani, quando non da centri commerciali e uffici. Esistono ancora solo all’interno del secondo anello, una specie di primo raccordo anulare che ricalca il perimetro delle mura dell’antica città. In alcune parti sono com’erano, in altre sono ricostruiti e – neanche a dirlo – gentrificati.

“Il consumo annuo di cemento in Cina è la metà di quello mondiale. In un anno si costruiscono a Pechino più edifici che nell’intera Europa. […] È un’estetica di moda, bugiarda. È come una contadina che se ne va per campi con i tacchi alti. Nella città ci devono essere possibilità che nascono dall’individuo, ci devono essere case singole, piccoli spacci di cibo e animali.
Scriveva Ai Weiwei nel 2006, prima ancora di partecipare al progetto del Nido e molto prima di essere rilasciato dopo tre mesi di carcere e di arrivare a definire Pechino un incubo costante.

“Pechino è una città che ha i suoi problemi
– gli risponde dalle pagine del suo blog Zhang Lijia, l’autrice di Socialismo è grande!Il clima, il traffico sempre più congestionato e, sicuramente, l’aria inquinata. Ma se per Ai una città è una struttura mentale, per me una città è la gente che la abita”.

Gli hutong sono gli unici spazi a misura d’uomo rimasti in città. Nei vicoli degli hutong, si vive ancora per strada. Si chiacchiera, si gioca a scacchi con il vicino, si riparano biciclette e si cucinano spuntini. È tutto uno scampanellio di biciclette, tricicli elettrici, rumori di pentole e vociare umano. Chi ha sempre vissuto negli hutong difficilmente si abitua alla nuova Cina.

I miei padroni di casa, ad esempio. Una coppia di cinquantenni pechinesi, fiera di non aver vissuto nemmeno un giorno nel palazzo di sei pieni dove abito. È un bell’appartamento certo, ha un salotto spazioso, il bagno e la cucina. Ma è in un palazzo. Hanno ricevuto questa casa dal governo quando gli hanno distrutto la loro e, pur di non abitarci, sono tornati a vivere con i genitori di lui. Una casa a un solo piano e senza bagno. Ma negli hutong, al centro di Pechino.

Nel 2007 ben pochi cinesi parevano rendersi conto di quanto i cambiamenti urbanistici avrebbero influenzato la vita dei singoli, il tessuto di relazioni e la socialità. Oggi, quattro anni dopo, Pechino si candida a diventare capitale mondiale del design. Hutopolis, un progetto curato da un architetto italiano all’interno della Beijing Design Week, vuole dimostrare proprio che lo stile di vita permesso dalla struttura dei quartieri tradizionali soddisfa tutti i parametri più moderni e occidentali di vivibilità di una città. Innanzitutto la densità di popolazione in queste aree è più bassa di quella di tante metropoli europee (e in una città di quasi venti milioni di abitanti fa la differenza), poi la mobilità permessa dagli stretti vicoli non prevede le macchine (e in una città con più di cinque milioni di veicoli privati e quasi senza aree pedonali – vi assicuro – fa la differenza) e ancora, la quantità di verde e di socialità permessa è nei parametri.

Vi lascio con un video che dimostra come la tradizione e la scienza possono unirsi a creare macchine incredibili. Succede. Negli hutong di Pechino durante la Settimana del design.

Water calligraphy tricycle from Danwei on Vimeo.

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