Dobbiamo essere onesti: ci abbiamo sperato un po’ tutti nel Roberto Maroni pronto a sfilare lo spadone (di Giussano ovviamente) e uccidere (politicamente) Bossi e l’attuale governo. Ha armato un esercito sul territorio (con i colonnelli sindaci Attilio Fontana e Flavio Tosi), conquistato il gruppo del Carroccio a Montecitorio (portando a sé anche il bossiano Marco Reguzzoni e l’ex nemico Roberto Calderoli), sfidato il famigerato cerchio magico (capitanato dalla battagliera meridionale adottata dallla padania Rosy Mauro) disertando sistematicamente i vertici del lunedì in via Bellerio e mostrandosi raramente agli incontri pubblici del partito. E quando, con i suoi uomini alla Camera, ha votato per aprire le porte di Poggio Reale ad Alfonso Papa, in molti si sono seduti a guardare lo spettacolo, pensando che l’ex batterista di Varese (nonché azzannatore di polpacci delle forze dell’ordine) sarebbe riuscito dove procure e decenni di opposizione hanno fallito: far cadere il Cavaliere.

Del resto è quello che chiede ormai da anni la base leghista: staccare la spina. Ottenendo però come unico risultato un bel bavaglio e la chiusura dei forum e degli spazi aperti su siti padani. Quello di Radio Padania è chiuso da ormai cinque mesi. E i sostenitori hanno portato le loro richieste in piazza: a Pontida, per la prima volta da ventun anni, si sono presentati inneggiando non Bossi ma “Maroni presidente”. E così anche a Venezia: il popolo padano vuole Maroni. E quando ormai tutto sembrava pronto è stato il generale a tirarsi indietro. A rientrare nei ranghi.

Il voto su Marco Milanese è stata la conferma della ritirata. Fino a mercoledì mattina appariva scontato che Maroni (e i suoi) alla Camera avrebbero votato contro l’ex braccio destro di Giulio Tremonti. E invece, in meno di ventiquattro ore, tutto è cambiato. Milanese salvato e Maroni “silenziato” con un contentino da Bossi che, per la prima volta, ha diviso pubblicamente il potere sulla Lega dicendo: “Decidiamo io e Maroni”. E il ministro dell’Interno si è allineato. E Milanese è rimasto dove era. Gli uomini dell’esercito e la base hanno sperato ancora: “Hanno dovuto salvarlo perché altrimenti Tremonti aveva dei guai e Tremonti è un amico della Lega, vedrai con Saverio Romano”, hanno detto in molti. Ed è stato Maroni in persona a smentirli, annunciando che il Carroccio mercoledì voterà per salvare anche il ministro delle politiche agricole su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio dalla procura di Palermo per associazione esterna di stampo mafioso.

Lo stesso ministro dell’Interno che ogni volta che può si vanta dei risultati ottenuti in questi anni dalla lotta contro la criminalità organizzata, poi grazia uno che, secondo i pm, “nella sua veste di esponente politico di spicco avrebbe consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno ed al rafforzamento dell’associazione mafiosa”. Persino per i leghisti, abituati a digerire anni e anni di leggi ad personam del Cavaliere, è troppo. Vedevano in Maroni la nuova linfa per il corpo ormai quasi spento della Lega. E invece, dopo aver assistito alla foto da ospizio che ritrae Berlusconi in aula accarezzare la testa di Bossi, deve accettare la disfatta di Maroni. Nominato nuovo leader a sua insaputa, rilevatosi fedele (e obbediente) soldatino per capacità.

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