I R.E.M. sul palco durante un concertoCome la maggior parte degli internauti – immagino – la notizia dello scioglimento degli R.E.M. l’ho appresa dai social network. Già, perché non era ancora apparsa sui siti dei maggiori quotidiani online, che già si rincorreva sui vari Facebook, Twitter e Google+. E così, quando sono andato sul loro sito ufficiale, mi sono imbattuto con la cruda realtà: con un semplice comunicato, la band di Athens annunciava lo scioglimento, ponendo la parola fine a una storia d’amore trentennale fatta, come tutte le storie d’amore, di alti e bassi, improntata sempre e comunque all’onestà intellettuale e al rifiuto delle etichette che tempestano il mondo del music business.

Vi confesso che quando iniziai ad ascoltare la musica con la emme maiuscola, l’approccio avvenne proprio con un album degli R.E.M., Out of Time, pubblicato nel 1991 e guidato da quella Losing my Religion che sfondò su Mtv grazie a un video in collaborazione col regista indiano Tarsem Singh, sfidando la Warner (la major che produsse il disco) che non intendeva promuovere un singolo che invitava le persone a spingersi in là lanciando una tenzone nei confronti della fede. In quell’album sono presenti gemme come Shiny Happy People (con Micheal Stipe in duetto con Kate Pierson, vocalist dei B52’s), Radio Song (con il rapper Krs-One) e le ballate funeree come Low, Half a World Away.

Fu grazie a questo disco che mi appassionai alla musica e per questo mi ritengo molto fortunato, perché fu in grado di aprirmi una finestra su un universo per me, all’epoca, sconosciuto. Internet era ancora di là da venire e chi non è vissuto in quegli anni – gli anni Novanta – non può capire come fosse difficile all’epoca reperire dell’ottimo materiale sonoro. Dopo di loro arrivarono i Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains, Soundgarden, Radiohead e Counting Crows, solo per citarne alcuni, ed è inutile dire che venni completamente travolto.

Oggi è facile dire: “Ma perché i Rem stavano ancora insieme?” o “Era ora?!” e baggianate simili. Certo, non c’è stato nemmeno il tempo di riprendersi dai festeggiamenti per i 20 anni dei Pearl Jam, che è arrivata una notizia del genere… Probabilmente, in questi tempi “oscuri”, la decisione che hanno preso è la più saggia. Forse avrebbero potuto anticiparla al ’97, quando il batterista Bill Berry venne colpito da un aneurisma e colse al volo l’occasione per evadere dalla gabbia del rock, lasciando la band e ritirandosi in campagna per svolgere mansioni da contadino.

In fondo – a parer mio – l’ultimo album degno del loro nome è proprio quel New Adventures in Hi-Fi uscito nel 1996 e interamente composto in viaggio, negli spazi tra i concerti e i soundcheck, e condito da una straordinaria omogeneità sonora. Un album che guardava all’indietro (Peter Buck subito dopo l’uscita dichiarò che “l’album allude a quei dischi pomposi hi-fi degli anni Cinquanta”) con canzoni pervase dalla sensazione di trovarsi al punto di non ritorno. Quasi come fosse una affascinante preveggenza, subito dopo Berry lasciò. Presa oggi, la decisione di porre la parola fine, suona un po’ Out of Time. Tutto torna.

Era da un po’ che Micheal Stipe cercava di scavare a fondo per “spremere la melodia”: il calo progressivo dei dati di vendita e gli screzi con la Warner hanno convinto la band che “il party sia finito e sia ora di andare a casa”. Prima di congedarsi definitivamente – c’è già qualcuno che scommette che tra un paio di anni inizieranno con le reunion – Michael Stipe & C. fanno un ultimo regalo ai fan: il 15 novembre uscirà Part Lies, Part Heart, Part Truth, Part Garbage 1982-2011, un doppio cd con i successi che hanno fatto la storia della band. Presenti anche alcuni brani inediti. Trentun anni di carriera non saranno facili da dimenticare.

Grazie R.E.M. e sempre Vive le Rock!

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