Nel giorno della festa dell’indipendenza messicana, due giovani di Nuevo Laredo, nel nord est del Paese, al confine con gli Usa, sono stati trovati impiccati sotto un ponte. Secondo la polizia locale, i due, un ragazzo e una ragazza di 25 e 20 anni, sono stati torturati. Sui loro corpi mutilati, un messaggio: “Vi teniamo d’occhio”. La firma, una Z, non quella di Zorro, l’eroe messicano schierato al fianco dei deboli, ma quella dei Los Zetas, uno dei più micidiali cartelli del narcotraffico, formato da ex militari e attivo soprattutto negli stati di Tamaulipas (dove si trova appunto Nuevo Laredo) e del Nuevo Leon, quello che ha per capitale Monterrey.

Secondo la polizia messicana, il messaggio degli Zetas conteneva minacce contro due popolari siti che si occupano della guerra al narcotraffico, Blog del Narco e Frontera Rojo Vivo, quest’ultimo legato al quotidiano regionale El Norte. Sul sito web poche ore dopo è apparso un avviso agli utenti e ai lettori: da quel momento in poi il giornale ha rimosso ogni commento con attacchi personali e ha nascosto riferimenti all’identità degli utenti. La polizia messicana ha fatto sapere alle agenzie di stampa internazionale che le due vittime degli Zetas non erano giornalisti, ma cittadini comuni, che però usavano social networks e blog per denunciare scandali e crimini connessi al narcotraffico. Un’escalation ulteriore degli Zetas e degli altri cartelli del narcotraffico, che già hanno reso del Messico uno dei paesi più pericolosi del mondo per i reporter. Secondo i dati del Comitato per la protezione dei giornalisti, negli ultimi cinque anni sono stati uccisi almeno 42 reporters di giornali locali, e 15 sono le vittime dal luglio 2010. La conseguenza di questi attacchi è che molti media cercano di evitare di pubblicare notizie sui narcos, con il risultato che cittadini e organizzazioni sociali hanno iniziato a creare reti di informazione indipendente dal basso per denunciare tanto i narcos quanto le connivenze delle autorità locali e nazionali con i cartelli della droga.

Nella terza città del Messico, Monterrey, quasi nelle stesse ore in cui i due giovani venivano uccisi, gli Zetas hanno colpito ancora. La famiglia di un poliziotto coinvolto nelle indagini sull’incendio al Casino Royale di Monterrey dello scorso 25 agosto (52 morti), è stata sterminata da un gruppo di uomini armati. I narcos hanno ucciso il padre, la matrigna e un fratellastro di Miguel Angel Barraza, una delle sei persone arrestate finora nelle indagini sulla strage. Anche in questo caso, secondo gli investigatori, si tratta di una vendetta degli Zetas, chiamati in causa proprio dalla testimonianza del poliziotto, che è indagato per corruzione.

In tutto il fine settimana della festa dell’indipendenza, nella sola zona di Monterrey sono stati 15 gli omicidi in qualche modo connessi con la guerra tra i cartelli della droga e con le forze governative (il confine tra le due, peraltro, è spesso molto incerto). E nonostante lo spiegamento di forze – o forse a causa di questo – la guerra contro i narcos lanciata nel 2006 dal presidente Felipe Calderòn non da’ risultati apprezzabili. Oggi gli Stati Uniti hanno pubblicato la lista nera dei paesi coinvolti nel narcotraffico. Il Messico è ancora in cima all’elenco, che copre 22 paesi e ha due nuovi entrati, El Salvador e Belize. I due paesi centroamericani, secondo Washington, sono diventati i punti di partenza per nuove rotte dei narcos messicani, in particolare del cartello dei Maras. Nella sua recente visita in El Salvador, a marzo, il presidente statunitense Barack Obama ha promesso 200 milioni di dollari di aiuti per la lotta al narcotraffico. Come dimostrano tanto l’esperienza messicana quanto quella ormai più che decennale dell’assistenza alla Colombia, la risposta solo repressiva e militare ai narcos non produce molto più che nuove spirali di violenza. In cui finiscono molto spesso persone come i due giovani di Nuevo Laredo che hanno pagato con la vita il loro impegno di cittadini preoccupati per il futuro delle proprie comunità e del proprio paese.

di Joseph Zarlingo

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