Cosa accade quando un cittadino italiano si trova un politico a portata di parola? Troppo spesso, coglie l’occasione per chiedere un favore personale o poco più. Al sindaco chiediamo di mettere a posto la buca della strada (meglio, dell’isolato) dove viviamo, al presidente del Consiglio chiediamo di sistemare un figlio, di ridurre il potere dell’avversario. Speriamo che in quel fatale incontro possa accadere qualcosa per cui, per un momento, si possa godere di un privilegio a-democratico e basato sul caso, magari a discapito di qualcun altro. E, in astratto, sogniamo che ci cambi la vita. Una specie di amicizia che però dura pochi secondi.

Cosa accade, invece, quando non c’è interazione tra cittadino e politico? Si considera il rappresentante istituzionale come un estraneo, una specie di amministratore di condominio a cui si delega la gestione del proprio orticello e a cui non si perdona la benché minima concessione a orti diversi dal proprio, anche quando il sindaco, o il presidente del Consiglio, agisce nel bene della collettività, essendo il rappresentante di tutti e non solo proprio o della parte di italiani che lo ha votato.

Ribaltiamo la prospettiva: cosa accade quando un politico italiano si trova un cittadino a portata di parola? Lo cerca, se cerca voti. Si ferma a parlare in ogni caso, se il suo carattere lo induce a farlo. Fugge via, o fa finta di niente, se è stanco, di fretta o teme rotture di scatole. Anche in questo caso vige la democrazia random, per cui tutto dipende da una serie di fortuite circostanze e gli elettori non hanno la minima speranza di poter ‘interrogare’ (parola presa dall’informatica più che dalla giustizia) gli eletti e i suoi rappresentanti istituzionali sapendo di poter ricevere risposte certe, oggettive, di qualità, valide per tutti.

E se un politico rimane senza popolo?
Si sbraccia, scrive lettere, cerca visibilità. Oppure, al contrario, coglie l’occasione per lavorare nell’ombra, non necessariamente nell’interesse di tutti. Ogni tanto se la prende coi giornali che non lo capiscono, con gli avversari che strumentalizzano, con i media che non danno sufficiente spazio, con le fronde interne che confondono gli elettori.

Silvio Berlusconi è a capo di una maggioranza che nei sondaggi è sotto dai sei ai novi punti. Qualsiasi altra democrazia lo avrebbe costretto alle dimissioni per motivi ‘etici’ che il premier, evidentemente, non ritiene plausibili.  La democrazia è però anche, e soprattutto, un meccanismo politico e in questo senso ha dei requisiti minimi di sopravvivenza che Berlusconi possiede senza alcun dubbio: maggioranza parlamentare stabile numericamente da un anno (le fibrillazioni di questi dodici mesi non esistono quando si votano manovre che distruggono lo stato sociale del Paese, e hai voglia a dire che il vento è cambiato) e squadra di Governo ancora saldamente al suo posto, sia a Palazzo Chigi che negli enti locali. Non se ne va nessuno, né Maroni né Stracquadanio, né Alemanno né Tosi, né Bossi né Scajola.

Assumendo che non si dimetterà (smettiamola, tutti, di chiedere questo passo indietro: è un esercizio inutile anche dal punto di vista del mero consenso), dovrebbe essere sotto di trenta punti, non di sei. Eppure è lì.

Aldilà dei limiti oggettivi dell’opposizione – 19% di fiducia, contro i 22 della maggioranza. Questo dato dice tutto – c’è però un dato che a mio avviso emerge con forza nell’ultima settimana: la capacità, probabilmente innata, che Silvio Berlusconi ha nel recitare le quattro parti del possibile rapporto tra politico e cittadino.

Il premier è il cittadino che chiede il favore al politico quando va da Putin (di cui, per l’appunto, si definisce amico) o fa il cucù alla Merkel (la quale, probabilmente, amica non lo sarà più).

È allo stesso tempo il cittadino che guarda con distacco il politico di turno solo perché dall’altra parte non si fa ciò che dice lui: oggi l’Europa che ci impone i tagli, domani Tremonti che fa pagare le tasse, dopodomani i comunisti che non gli fanno fare le riforme. Come se il debito dell’Italia fosse colpa dell’Europa, come se la necessità di una manovra finanziaria non dipendesse da lui, oltre che dal ministro dell’Economia, come se non fosse il presidente del Consiglio.

È il politico che stringe mani ai passanti, regala soldi a chi capita, acquista case sulla base della convenienza politica ed è anche il politico che rifiuta i confronti televisivi, pur essendo “Sua Emittenza” o passa dal Parlamento solo quando ha da chiedere la fiducia.

E per finire è il politico che, perso il consenso, cerca alibi ogni giorno, alternando le storiche ossessioni a nuovi bersagli provvisori, colpiti alle spalle (la moglie di Bossi è la new-entry) e poi protetti, come se chi fa l’attacco non coincidesse proprio con lo stesso Berlusconi (editore di Panorama).

Il premier non affonda prima di tutto perché i suoi sodali di maggioranza, aldilà degli strilli sui giornali, lo tengono in piedi: non dimentichiamocelo quando, una volta caduto il Cavaliere, verranno a chiedere i voti parlando di rinnovamento, di nuova stagione, di modernità. Ma non affonda anche perché saltella costantemente tra le quattro parti, conquistandone l’identificazione di volta in volta, e ritardando all’infinito l’appuntamento con la realtà.

Io non sono affatto sicuro che Berlusconi abbia perso voti negli ultimi dieci giorni. Chi ha deciso di non votarlo non avrà cambiato idea di sicuro. Non sono così certo del contrario: chissà quanti italiani, davanti a quel “culona inchiavabile” (vero o meglio ancora presunto, il che rinforzerebbe la mia tesi) avranno detto: “Però ha ragione”, dimenticandosi di tutto il resto. Chissà quanti, sentendo la frase su Belén, “graziata” solo perché fidanzata di Borriello ai tempi, avranno pensato: “Io me la sarei fatta comunque” o “Grande, perché lui ce la può fare”. Chissà quanti e quante avranno pensato in questi mesi, cedendo alla più devastante delle degenerazioni culturali del nostro Paese, ossia la valutazione economica dell’etica: “Se mi avesse regalato una collana di diamanti, a cena ci sarei andata anche io”.

Per tutti questi motivi cerchiamo di fare attenzione a non farci distrarre dal gossip: certo, la telefonata con Lavitola è interessante e facile da ascoltare ed è molto più divertente delle tabelle Ocse sullo sviluppo economico (il nostro livello di benessere è lo stesso del ’99, solo che la vita costa molto di più di allora) o dei dati delle immatricolazioni Fiat in Europa (-7,6%, col mercato a +7,8%).

Ma non dobbiamo cadere nell’istinto all’identificazione o alla caricatura. Bisogna prendere molto sul serio chi non si dimette e dunque può, ogni giorno, rovinarci il futuro. E non bisognerebbe cadere nella tentazione di aspettare il 2013 convinti di vincere le elezioni, perché basta saltellare di qua e di là, tra cittadino e politico, tra uomo della strada e presidente del Consiglio, per spaventare sia elettori che eletti e, dunque, generare atrofia sociale.

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