Cristian Chironi, artista poliedrico ed originale, porta a Modena, venerdì 16 e sabato 17 settembre, ore 21, su prenotazione, negli spazi di Betta Frigieri Arte Contemporanea (via Giovanni Muzzioli 8, http://www.associazioneculturalebettafrigieri.it/) la sua più recente azione performativa, denominata Cutter. Il tema principe dell’edizione 2011 del Festival Filosofia è rappresentato dalla natura: quella natura che, sotto plurime sembianze, Chironi sottrae e asporta dalle pagine dei libri con gesti secchi e precisi, per mezzo di una taglierina, determinando vuoti che vengono colmati dalle rappresentazioni sottostanti e creando in tal modo inedite combinazioni e mirabili accostamenti. Abbiamo intervistato l’artista sardo, che da diversi anni vive sotto le due torri, per tentare di ripercorrere e sviscerare la sua ormai ampia e sfaccettata produzione artistica ed ottenere delle chiavi di lettura della sua ultima performance live. Ci ha risposto con accuratezza ma al contempo con la consueta dose di ironia. Visitare parallelamente e contestualmente il suo sito web, http://www.cristianchironi.it , risulterà certamente utile e proficuo: in particolare la sezione fotografica e video dedicata alla selezione dei suoi lavori più rappresentativi.

Ripercorrendo la serie dei numerosi lavori che ha realizzato nell’arco dell’ultimo decennio, sembra quasi che abbia dovuto fare in primo luogo i conti con se stesso, con la sua terra d’origine e con la sua famiglia. Guardandosi alle spalle come descriverebbe il cammino che l’ha condotta dalle tue prime opere fino a Cutter?

Inizialmente, durante il periodo in cui studiavo all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ho lavorato con immagini e oggetti che appartenevano alla casa in cui vivevo, per facilità e vicinanza. Quello che cercavo era il rapporto tra l’immagine e l’immaginazione. Il mezzo fotografico mi permetteva di sondare nuovi spazi e altri tempi, l’uso del corpo di instaurare dei ponti con il presente. Non credo però che quei primi lavori siano meno ironici di questi ultimi, vedi Lina (2004) ad esempio; come, viceversa, la performance Rubik (2008), che prende sì spunto dal celebre rompicapo inventato nel 1974 ma che è anche un affresco leggero sull’umanità oltreché la misura di uno stato attuale: una babele multietnica, di storie e di destini umani, in cui l’evasione performativa del gioco si trasforma in viaggio, tensione emotiva e programmatica cerebralità. Se dovessi descrivere il percorso sinora intrapreso lo definirei come una strada a doppia corsia e Cutter (2010) è laddove tutto torna, un nuovo territorio da scoprire.

Protagonista di Stirpe, uno degli ultimi romanzi del suo amico Marcello Fois, è la famiglia sarda dei Chironi. Immagino non sia una semplice coincidenza, mi sbaglio? Cosa ci racconta a proposito?

Curiosa la domanda. Potrei dirti che Marcello ci ha proposto un sacco di soldi per poter usare il nostro cognome, di cui gli piaceva l’assonanza spagnola, e che ora tutti i miei zii girano in Costa Smeralda col BMW. Ti aggiungo anche che i Chironi in tutto sono undici. Ho conosciuto Marcello Fois al Festival di Letteratura Isola delle Storie che viene organizzato ogni anno a Gavoi, un paese situato nel cuore della Sardegna. Esponevo una serie fotografica intitolata Le petit (2006): nella prima foto è ritratta una vecchia casa di una frazione di 25 abitanti che si chiama Lollove e che per coincidenza è la casa in cui vissero i nonni di Fois. Da qui è nata una reciproca stima. Marcello ha scritto il testo per le opere della mia serie intitolata DK (2009), presentate per Art Fall 2009, mostre ed eventi ideati dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara in collaborazione con il network Xing. Al romanzo Stirpe seguirà Il tempo di mezzo, di cui ho letto una breve anteprima che dice pressapoco così: “Quanto al mio nome io sono Cristian, Cristian Chironi. Ora perché mi abbiano dato questo nome è una storia che fa da sola un racconto: posso dire che per i dottori del reparto ostetrico non avrei superato la notte e che mia madre volle darmi un nome che non intaccasse la lista dei Lari. Sprecare un nome per un neonato moribondo può sembrare un cercarsi la malasorte. Così messa alle strette da un prete pronto a battezzarmi in articulo mortis rispose che il mio nome sarebbe stato Cristian come il parrucchiere che le aveva sistemato l’acconciatura il giorno del suo matrimonio”. Mi vuole un gran bene facendomi nascere già moribondo e assegnandomi il nome del parrucchiere…! Anche se ti confesso che nella realtà – il libro in questione è un romanzo – non è andata tanto meglio: mia madre mi diede questo nome per via della sua passione per un cantante di nome Gaetano Cristiano Rossi, che si presentava nelle edizioni di Sanremo con lo pseudonimo di Christian. Che orgoglio eh?! Beh, anche il tuo non è che sia un gran nome: Alarico, che razza di nome ti han messo?!

Quali sono i tratti fondamentali della sua poetica?

La ricerca mira a mettere in relazione una pluralità di livelli come realtà e finzione, figura e immagine, conflitto e integrazione, materiale e immateriale. Nell’immagine cerco un nutrimento al lavoro. Un input che faccia scaturire una serie di immaginazioni. Alcuni lavori hanno la potenzialità di far rivivere gli accadimenti. Come Gap (2008) ad esempio, che lavora sul complesso rapporto che viviamo oggi tra passato e presente. L’accostamento con gli internati militari italiani (I.M.I.) e con un determinato periodo storico, quello appunto della Seconda guerra mondiale, nasce dall’esigenza di rieditare la determinazione di una generazione che dopo l’armistizio preferì la prigionia tedesca alla repubblica di Salò. Usando le foto del tenente e fotografo Vittorio Vialli, prigioniero nei lager, ricucisco quel gap temporale mettendolo in sincrono col presente. Nel riutilizzo di queste vecchie foto c’è una sorta di passaggio da spectator a spectrum, citando Roland Barthes. Il recupero è contaminato da un’intrusione, dove il corpo diventa un fantasma e attraversa i limiti. A volte è invece il corpo a vestire l’immagine. La vestizione è consequenziale alla mimesi o al Gap che si vuole cercare.

Cutter è uno snodo importante nella sua opera complessiva. Mi pare che sia riuscito a far convivere con perfetto equilibrio e compenetrazione le raffinatezze colte di un bibliofilo enciclopedista, illuminista, con sketch d’azione gustosamente pop e trovate che donano una vita propria tridimensionale e multisensoriale alla bidimensionalità della pagina. Ci racconta la genesi ed i significati sottostanti il suo ultimo lavoro?

Cutter è nato impugnando una lama tagliente e asportando il contorno di un dettaglio da un’immagine contenuta in un libro; attraverso il collegamento con l’immagine successiva scaturisce un nuovo modo di vedere le cose. Cutter nasce da un’idea di sottrazione e perdita, è un lavoro sull’estinzione, ma non solo, ha più chiavi di lettura: ad esempio lavora su ciò che sta dietro alle cose. E’ un viaggio contemporaneo che compio restando seduto ad un tavolo. Dalla relazione con le immagini innesco una serie di artifici performativi legati alla dimensione uditiva, visiva, tattile, e olfattiva. I precedenti viaggi performativi sono stati di natura mnemonica con Poster (2006) e politica con Rubik (2008). Cutter è invece un viaggio all’interno della natura e nel rapporto che abbiamo oggi con essa: ammiriamo l’Himalaya con un cheeseburger in mano. E’ anche la naturale conseguenza di precedenti lavori, sia sotto l’aspetto formale che concettuale. Nella serie fotografica Untiltled #1 (2001) c’era già un’idea di vuoto come cancellazione, attuata indossando un vestito bianco. Sticker (2007) è un video che comunica il conflitto tra una figura e un fondale. La mimesi dà l’illusione che la figura possa trasformarsi in immagine, fino a quando, lentamente, si stacca cadendo a terra, lasciando sul fondale la propria sagoma bianca.

Sotto la lama del suo taglierino nascono meravigliose ed inedite immagini e figure. Nuovi tagli, nuove fogge producono per sottrazione estemporanei punti d’osservazione, festoni colorati, trasparenze, strane ibridazioni naturalistiche e casuali giustapposizioni tra le parole stampate del testo e gli squarci cromatici. Quando ha iniziato a concepire Cutter aveva già in mente una produzione specifica per il mercato dei libri d’artista oppure è qualcosa che è giunto come logica conseguenza di tutto ciò?

No. Non pensavo assolutamente ad una produzione specifica per il mercato dei libri. Penso che il valore di Cutter tu lo debba cercare soprattutto tenendo presente l’aspetto performativo. Cerco di spiegarmi meglio: i rapporti tra la scrittura e l’immagine sono stati molto approfonditi già in passato con differenti orientamenti. Il libro come sistema di segni, come spazio, architettura. Penso che il valore del mio approccio sia stato quello di dare vitalità al libro attraverso il live, conferendo alle immagini una dimensione viva. Come anche in un recente lavoro di Mette Edvardsen, performer norvegese che vive a Bruxelles, intitolato every now and then, presentato al Festival sullo Spettacolo Contemporaneo a Bologna, che è esemplificativo di ciò che ti voglio dire. Anche in questo lavoro l’oggetto libro viene letto come fosse una performance, mettendo in parallelo il micromondo della sua architettura con il macromondo della “scena”. Ritornando ai libri di Cutter, ciò non vuol dire che questi non possano presentarsi autonomamente rispetto al live. Se il 28 novembre presenterò solo la performance alla Fondation Cartier di Parigi, all’imminente Festival  Filosofia presenterò insieme sia un’installazione di libri che la performance live mentre nella mostra collettiva per Dolomiti Contemporanee – laboratorio d’arti visive in ambiente, che inaugurerà sabato 17 settembre, esporremo autonomamente quattro libri intagliati: Himalaya, Monte Bianco, Alpi e Dolomiti.

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