Ero seduta alla scrivania. In quei giorni mi occupavo dell’ufficio stampa della festa dell’allora Ds, nella storica sede di via dei Fiorentini a Napoli. Al computer preparavo il comunicato stampa in una controra accaldata. L’immagine del primo aereo, conficcato in una delle due Torri mi fece pensare, con quella reazione ingenua tipica dei momenti in cui non vuoi credere a cià che vedi, ad un pilota ubriaco. Contro ogni logica pensai ad un incidente. Ciò che seguì lo sanno tutti.

La prima volta che misi piede a New York, mia cugina Patrizia mi aspettò all’aeroporto di Newark e andammo, senza nemmeno il tempo di un caffè, proprio lì, sulle Torri, dritto in cima. Sentivo le vertigini, aggrappata al corrimano posizionato tutto intorno alle vetrate, guardando in basso. Tutto era piccolo. Lontano e silenzioso. Ho pensato milioni di volte che quella era la stessa immagine, l’ultimo frammento di Manhattan, che avevano avuto riflesso negli occhi, coloro che si lanciarono dalle Torri, in cerca del volo per sfuggire alla morte. Ma volo non ci fu, se non disperato.

In un momento, nella mia testa i nomi delle persone care che conoscevo a Manhattan. Meno di oggi ma abbastanza per aggiungere preoccupazione allo sgomento. Il mio amico Michael ritornò a piedi nel New Jersey quel giorno, fermandosi sul ponte, nel mezzo di una folla umana impaurita e attonita, a guardare indietro, con le lacrime agli occhi.

Dieci anni non cambiano il dolore umano, né il ricordo. Così come non fermano le tesi del complotto o le arringhe di chi pensa che quelle tremila vittime (poco meno) abbiano meritato di finire così in virtù di una collocazione geografica: i malvagi Stati Uniti d’America. Come dire che un bambino in Africa merita che si facciano spallucce di fronte alla sua fame perché nato nel posto sbagliato del mondo; come se un mutilato da una mina, in un qualsiasi paese di guerra, meriti di essere offeso a morte dalla follia umana; come se i morti delle guerre non abbiano tutti pari dignità, come se i morti del terrorismo, da piazza Fontana, alla Stazione di Bologna, a Londra, Madrid siano, in fondo, responsabili del loro essere nel posto sbagliato e di averne meritato l’offesa.

Quel giorno cambiò una storia che vedeva l’America inattaccabile e nella sua atroce sorpresa lasciò il mondo privo di parole. Tranne quelle di chi prova sempre qualche sottile compiacimento quando qualcosa di negativo tocca l’America, o tocca la Palestina, o Israele, o l’Afghanistan, o il mondo arabo, o il Medio Oriente; quelli che, in fondo, qualcuno se lo merita proprio di morire cosi, perché il burqua o perché Wall Street.

Di quel giorno io ricordo le storie di persone che erano sedute a lavorare e avevano sogni e progetti e che erano di tutti i paesi de mondo. Nelle Torri non c’erano “gli americani”, non solo, Nelle Torri c’erano italiani, messicani, giapponesi, inglesi, canadesi e tanti tanti altri. Leggeteli quei tremila nomi se il cuore ve lo dice e troverete un suono familiare, come se fosse il vostro vicino di casa.

Oggi le news ci informano di un nuovo possibile attacco. Mia madre mi dice di non prendere la metro. Non ho altro modo di arrivare al World Trade Center domenica, per aggiungere le mie due mani a quella catena umana che si si formerà al mattino a Battery Park e su verso Lower Manhattan. Mani che simbolicamente si stringeranno a formare una catena umana contro l’idiozia.

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