L’ex missino Gaetano Saya sta annunciando che alla fine di settembre il suo Partito Nazionalista, quello che ti vende per un’ottantina di euro il kit del perfetto paranazista (camicia grigia, simboli che simulano le svastiche, ecc.), terrà a Genova la sua prossima adunata. A prescindere dalla concessione o meno di tale autorizzazione, nella sinistra underground della città medaglia d’oro della Resistenza è subito partito un tam-tam. “rifacciamo il giugno 1960“.

Cos’era successo allora? In quei giorni di mezzo secolo fa era in atto il tentativo reazionario del leader Dc Ferdinando Tambroni di costituire un governo allargato agli ex fascisti del Movimento Sociale e i dirigenti di quel partito, sino ad allora confinato ai margini del cosiddetto Arco Costituzionale, decisero di “marcare il punto” a proprio vantaggio indicendo un congresso nazionale proprio a Genova. Per di più, chiamando a presiederlo Carlo Emanuele Basile, il repubblichino collaborazionista nei rastrellamenti tedeschi contro i partigiani, già prefetto durante l’occupazione nazista della città.

Il 29 giugno di quell’anno la Camera del Lavoro proclamò lo sciopero generale, mentre le forze di polizia iniziavano ad affluire e cominciarono le cariche contro i dimostranti.

A quel punto i portuali, nerbo della classe lavoratrice genovese, abbandonarono le officine e le banchine armati dei terribili ganci da stivatore, conquistarono di slancio il centro cittadino gettando nella grande fontana di piazza De Ferrari le camionette dei carabinieri e posero fine alla provocazione mettendo in fuga i fascisti.

Il moto popolare scatenò una tale ondata politica da raggiungere perfino i palazzi romani: Tambroni si dimise e – poco dopo – prese vita il primo governo di centrosinistra (quello che ancora nutriva aspirazioni riformiste).

Non a caso molti notarono una simmetria con fatti avvenuti sotto la Lanterna sessant’anni prima, quando la chiusura della locale Camera del Lavoro, per ordine prefettizio su mandato del governo Saracco, scatenò un’analoga insurrezione popolare: i famosi e vittoriosi “cinque giorni al porto”, con relative dimissioni del governo e avvio del primo esperimento riformista della storia nazionale: il dicastero Zanardelli-Giolitti.

Queste le memorie cui si fa riferimento parlando di “nuovo 1960”.

D’altro canto, a distanza di oltre cinquant’anni dall’ultimo ruggito del popolo di sinistra genovese, è pensabile – come ipotizzano gli “indignati” cittadini- che da queste parti il prossimo settembre riproporrà un revival delle lotte del lavoro per la democrazia?

In effetti, nel lungo lasso di tempo intercorso, le cose ormai sembrano profondamente cambiate. Innanzi tutto dov’è finito il nerbo della classe lavoratrice? Ristrutturazioni e finanziarizzazioni liberistiche varie hanno falcidiato l’esercito del lavoro minandone la fiera coscienza con il virus della precarizzazione. Tanto per dire (restando ancora nello scalo genovese), nel frattempo gli scaricatori del carbone, punta politica avanzata e nucleo più combattivo della portualità, da alcune migliaia si sono ridotti a qualche decina. Lo stesso discorso si potrebbe ripetere per le fabbriche torinesi, come le vicende Fiat (e le difficoltà della Fiomm) continuano a ricordarci.

Ma non è solo una questione di numeri, visto che da anni ormai il lavoro come soggetto politicamente significativo è stato cancellato, reso invisibile. Se ne parla – e solo in cronaca – laddove capita l’ennesima “morte bianca” o quando la disperazione degli emarginati produce gesti estremi. Si può dire che questa cancellazione è andata di pari passo con l’integrazione dei vertici (e dei quadri intemedi) delle rappresentanze del lavoro nella mucillagine indistinta del ceto dirigente? Di più: il suo imborghesimento?

Fenomeno altrettanto parallelo alle amnesie della sinistra organizzata, un tempo referente del mondo del lavoro; seppure altrettanto strutturalmente terrorizzata dal conflitto sociale che metteva a repentaglio le sue attitudini mediatrici e negoziali.

Stando così le cose, dubito che la fine di questo settembre preannunci un nuovo “1960”, stante la mancanza di sponde politiche all’indignazione e lo smarrimento di un qualsivoglia pensiero politico che dia senso e significati all’insorgenza sociale.

Al massimo ci sarebbero le premesse per strumentalizzazioni repressive come nel più recente 2001 (il G8).

Considerazioni che credo valgano a prescindere dal fatto che al nazista Saya venga concessa o meno l’agibilità della piazza. Fatto che comunque – ad oggi – non possiamo escludere: di questi tempi qualcuno che intende pescare nel torbido potrebbe pur esserci.

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