Qualcosa si è mosso. Nel limbo incosciente che giace a metà strada tra la realtà politica e la vita reale dei sobborghi, si è addormentata la rabbia. Il braccio armato dello scontento è tornato da dove era uscito: dalle case da cui aveva imparato l’assenza di regole familiari, di gerarchie precise che determinino i diritti e i doveri del familiare e del cittadino; figure queste mai così vicine, come in questi anni, ad una crisi d’identità profonda, lacerante.

La proiezione di questo status per le strade, i sobborghi, i vicoli inglesi ha dissipato ogni dubbio sul fatto che la violenza non solo è presente, ma è parte integrante delle moderne dinamiche sociali britanniche nonostante trent’anni di esperimenti liberali l’avessero respinta, ripudiata e apparentemente dimenticata.

Certo, la pressione mediatica di un consumismo figlio di un capitalismo asimmetrico ha giocato la sua parte nell’implosione della rabbia, ma il suo ruolo è da ritenersi certamente minore se lo si paragona al disagio consolidato di una classe sociale rassegnata al proprio futuro in momenti della vita in cui altri forgiano e fanno i conti con le proprie aspirazioni.

Riot
, “rivolta”
: la scelta quasi unanime da parte della stampa mondiale di questo termine racchiude in sé non solo pigrizia concettuale, ma anche e soprattutto il facile quadro logico che vedeva l’uccisione di Mark Duggan a Tottenham come la ragione della violenza nei giorni che l’hanno seguita. Come con un triangolo di combustione, la rivolta ha bisogno di un movente, un agente e una reazione per definirsi tale. Eppure i fatti delle notti drammatiche di Londra, Birmingham e Manchester hanno dimostrato come la risposta violenta e per lo più disorganizzata di gruppi eterogenei di giovani, non avesse altro fine se non quello di ottenere un appagamento materiale immediato attraverso ciò che la nostra società ha apparentemente bandito dalla vita reale, ma non dalle astrazioni della televisione e dei media in genere: la violenza.

Se il movente ha dunque smesso di essere determinante (a nulla sono valsi gli appelli alla calma dei familiari dell’uomo ucciso dalla polizia), l’obiettivo della protesta è divenuto confuso e sbiadito. Se si escludono, infatti, attacchi alla polizia atti più a difendere l’inaspettato status di padroni della high street che per vero e proprio spirito vendicativo, i reali obiettivi della rabbia sono state sì le grandi catene di beni di consumo, ma anche e soprattutto piccoli esercizi commerciali che, come naturale, non hanno potuto opporre che una debole resistenza. La collettività si ribella contro se stessa e implode per via di un vuoto strutturale e culturale che inizia, appunto, nelle famiglie e finisce nei posti che i ribelli conoscono meglio: la high street e le vie dello shopping.

Il rapporto della società britannica con la violenza è controverso sicuramente più che nella maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale. La costruzione delle dinamiche comunitarie non è stata conflittuale; non c’è stata una lacerazione interna al territorio per raggiungere un’unità politica e strutturale nazionale. Al contrario: la formazione dello Stato ha seguito processi lunghi e laboriosi ma quasi mai traumatici.

Ed è proprio per questo motivo che le uniche rivolte susseguitesi negli ultimi 250 anni in Gran Bretagna sono state di tipo economico: a cominciare dalle Gordon Riots del 1778, per finire alle Rebecca e le Swing Riots entrambe del 1830. Cause scatenanti differenti, ma con un unico comune denominatore: condizioni disagiate e disillusione nei confronti del futuro. Le stesse del 2011 ma con una reale, fondamentale differenza nell’oggetto dei saccheggi: beni di prima necessità in passato e di consumo nel presente.

La spettacolarizzazione della giustizia chiude il cerchio di quattro giorni di disordini con pene la cui lunghezza media ha visto un incremento medio del 25%. Se si voleva una risposta chiara e decisa, la si è avuta nelle aule dei tribunali, dove i processi hanno avuto luogo 24 ore al giorno condannando per reati che andavano dal furto alla pubblicazione sui social network di frasi inneggianti al saccheggio. Ma, si sa, in democrazia – soprattutto in casi di alleanze traballanti come quella tra Tories e LibDems – la risposta tende a essere mediatica e spettacolare; paradossalmente più che nei regimi autoritari.

I tumulti inglesi lasciano uno strascico polemico e la rinnovata promessa di gettare luce su quel limbo che resta sospeso tra l’ideale e il reale che è il rapporto/non rapporto tra una classe politica impreparata, a tratti indifendibile, e un ceto basso sempre più alla deriva.

Tornano alla mente le parole di Winston Churchill quando, interrogato su quali fossero le qualità di un grande uomo politico, rispose: “L’abilità di predire ciò che accadrà domani, la prossima settimana, il prossimo mese e il prossimo anno. E l’abilità, a posteriori, di spiegare perché ciò non è successo”. Frasi che suonano come una minaccia sui cieli inquieti dell’autunno londinese.

di Alex Franquelli, giornalista freelance a Londra

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